La prima sez. Roma del T.A.R. Lazio, con la sentenza 13 novembre 2020 n. 11814, definisce la giurisdizione ordinaria in tema di controversie sulla permanenza a membro del Consiglio Superiore della Magistratura (CSM) di un soggetto che ha perso la titolarità, a seguito di collocamento a riposo per raggiunti limiti di età: cessazione della carica di un organo elettivo al venire meno dell’appartenenza all’ordine giudiziario.
Il caso riguarda una delibera del Consiglio Superiore della Magistratura (organo di rilievo costituzionale, rientrante tra quegli organi previsti dalla Costituzione, ma da essa non direttamente disciplinati nelle funzioni; sono anche detti organi ausiliari non partecipando direttamente alle finalità perseguite dallo Stato) adottata di approvazione della proposta della Commissione verifica titoli avente ad oggetto «1/VA/2020 – Determinazioni del Consiglio Superiore della Magistratura circa la permanenza del dott. … quale componente del Consiglio dopo il suo collocamento per raggiunti limiti di età», dopo la sua elezione nel 2008, quale consigliere del Consiglio Superiore della Magistratura nel collegio nazionale comprendente i magistrati con funzioni di legittimità: si contesta la legittimità dovuta:
- alla cessazione anticipata del mandato prima del decorso dell’ordinario termine quadriennale previsto dalla Costituzione;
- in assenza di una previsione normativa che imponga la cessazione a causa del collocamento a riposo per il limite massimo d’età anagrafica.
In termini di merito si verte sulla titolarità della funzione legata alla nomina slegata dai requisiti soggettivi funzionali alla sua elezione: se, quindi, una volta avvenuta la nomina si possa prescindere dal requisito di provenienza, atteso che con il collocamento “in pensione” viene meno l’appartenenza dell’eletto alla componente “togata”, di cui al quarto comma dell’art. 104 Cost. (per i componenti eletti «per due terzi da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie»).
Nella determinazione del CSM si dispone in termini non di “decadenza” dalla carica ma di “cessazione dalla carica” dovuta al venir meno di un prerequisito per la conservazione dell’ufficio (piuttosto che il mancato esercizio di una funzione).
Giova rammentare che “il principio di rappresentatività”, cui dovrebbe ispirarsi la disciplina sulla composizione del Consiglio superiore, risponde all’esigenza che il Consiglio, nella sua componente “togata”, costituisca l’espressione di gruppi i quali si differenzino l’uno dall’altro per una propria specifica e sostanziale caratterizzazione, scelti tra coloro che esercitano effettivamente le funzioni di legittimità, correlato, dal punto di vista dell’elettorato passivo, al precetto costituzionale esige che i componenti siano scelti fra i magistrati appartenenti alle varie categorie: il criterio seguito per la permanenza impone il rispetto delle proporzioni stabilite dal Costituente, finalizzato ad assicurare l’entità numerica delle componenti in seno al CSM.
In termini diversi, ed in relazione al fatto che il Consiglio sia stato concepito sin dall’origine a garanzia dell’indipendenza di tutta la Magistratura, senza che i suoi componenti magistrati possano considerarsi come veri e propri rappresentanti delle categorie di appartenenza, «ciò che conta, agli effetti della valida composizione del Consiglio superiore… é che questi posti… risultino in concreto ricoperti da magistrati che vi abbiano diritto, sulla base di legittime disposizioni dell’ordinamento giudiziario (o delle altre leggi comunque pertinenti alle funzioni ed allo stato giuridico dei magistrati stessi)»[1].
A rafforzare tale orientamento è la costatazione che, ai sensi del comma 5 dell’art. 37, «Sospensione e decadenza» della legge 24 marzo 1958, n. 195, «Norme sulla Costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della Magistratura», qualora un componente appartenente alle categorie dei magistrati riporta una sanzione disciplinare più grave dell’ammonimento (da ricomprendere la rimozione con relativa perdita del rapporto di servizio) di diritto incorre nella decadenza dalla carica: la decadenza è correlata alla funzione esercitata nel concreto (nel ricorso si riporta invece che «il collocamento a riposo (come le altre cause diverse dalla decadenza, quale ad esempio le dimissioni dall’ordine giudiziario) non è in alcun modo riconducibile, pertanto, alla tipologia dei comportamenti che determinano decadenza, né crea una condizione di (almeno diretta) incompatibilità, con ciò evidenziandosi un’estraneità della cessazione dal servizio rispetto alla categoria generale delle cause di decadenza»).
Di converso, il magistrato che abbia chiesto il trattenimento in servizio fino al settantacinquesimo anno di età quando era scaduto il relativo termine perde lo status di magistrato in servizio, causa ostativa alla prosecuzione delle funzioni di membro togato del Consiglio superiore della magistratura[2].
Fatte queste premesse di inquadramento, il ricorrente censura il provvedimento sotto i seguenti profili:
- la qualificazione del CSM come “organo di autogoverno” anziché di garanzia;
- il richiamo operato al concetto della “rappresentanza democratica”, deducendo l’assenza di un collegamento necessario tra status di magistrato in servizio e mandato consiliare (ragione dirimente dell’intera questione di diritto);
- l’appartenenza all’ordine giudiziario costituirebbe la condizione richiesta esclusivamente per la presentazione di una candidatura ma non anche per il mantenimento della carica (una dislocazione tra potere esercitato che permane, si qualifica dalla nomina, e potere di nomina una volta esercitato);
- l’irrilevanza al concreto esercizio delle funzioni giurisdizionali, dato che ordinariamente tutti i membri elettivi del CSM provenienti dalla magistratura non svolgono nel corso del mandato tali funzioni, per dedicarsi esclusivamente all’incarico presso il CSM (argomento diverso rispetto all’esercizio delle funzioni, dovendo rilevare che ai sensi del comma 2 dell’art. 30, «Collocamento fuori ruolo», del d.P.R. 16 settembre 1958, n. 916, «Disposizioni di attuazione e di coordinamento della L. 24 marzo 1958, n. 195, concernente la costituzione e il funzionamento del Consiglio superiore della magistratura e disposizioni transitorie», i magistrati «componenti elettivi sono collocati fuori del ruolo organico della magistratura. Alla cessazione della carica il Consiglio superiore della magistratura dispone, eventualmente anche in soprannumero, il rientro in ruolo dei magistrati nella sede di provenienza e nelle funzioni precedentemente esercitate»).
In subordine, vien chiesto sia sollevata questione incidentale di legittimità costituzionale degli artt. 32, 37 e 39 della legge n. 195 del 1958 per violazione dell’art. 104 della Costituzione.
Il Ministero della giustizia e il Consiglio Superiore della Magistratura che, oltre a chiedere la reiezione del ricorso siccome infondato, hanno eccepito il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, in quanto la cognizione della controversia spetterebbe al giudice ordinario: il Giudice di prime cure, accogliendo l’eccezione dispone l’inammissibile del ricorso per difetto di giurisdizione.
Le motivazioni si avviano con una prima ripartizione di competenza in materia di elezioni amministrative (principi applicabili anche per le elezioni al CSM) sulla base del riparto della giurisdizione del criterio del doppio binario (vale a dire, in rapporto alla consistenza della situazione giuridica di “diritto soggettivo” o di “interesse legittimo” della quale si chiede la tutela):
- devoluzione al giudice ordinario delle controversie afferenti questioni di ineleggibilità, decadenza e incompatibilità dei candidati (concernenti diritti soggettivi di elettorato), posizione che si instaura una volta esaurita la fase elettorale: sono le questioni attinenti alla sussistenza o meno di una causa di incompatibilità, ovvero di decadenza correlata alla pregressa nomina, ovvero la cessazione della carica per collocamento a riposo del magistrato non risultando intaccata dall’esercizio di simili poteri di verifica la natura di “diritto soggettivo” della posizione sostanziale spettante all’interessato;
- giurisdizione del giudice amministrativo le questioni afferenti alla regolarità delle operazioni elettorali, in quanto relative a posizioni di interesse legittimo.
In questo senso, vengono richiamati i precedenti[3] dove si è statuito che:
- «sono devolute al giudice ordinario le controversie concernenti l’ineleggibilità, la decadenza e l’incompatibilità, in quanto volte alla tutela del diritto soggettivo perfetto inerente all’elettorato passivo;
- la giurisdizione del giudice ordinario non incontra limitazioni o deroghe per il caso in cui la questione di eleggibilità venga introdotta mediante impugnazione del provvedimento di decadenza, perché anche in tale ipotesi la decisione verte non sull’annullamento dell’atto amministrativo, bensì sul diritto soggettivo perfetto inerente all’elettorato attivo o passivo”;
- Il principio si attaglia de plano ai componenti eletti (dal Parlamento o dai magistrati) del CSM giacché, ovviamente, anche la posizione soggettiva acquisita da questi ultimi per effetto della scelta compiuta dagli elettori si configura come diritto soggettivo perfetto (cfr., in relazione all’applicazione della L. n. 195 del 1958, la risalente Cass., sez. un., n. 2918 del 1972)».
La pretesa (c.d. petitum sostanziale dedotto in giudizio) di mantenere la carica afferisce direttamente ad una situazione giuridica di “diritto soggettivo” e non di “interesse legittimo”[4], atteggiandosi a verifica della sussistenza dei requisiti necessari per il mantenimento della carica, ivi compresi quei requisiti che costituiscono un prius logico del diritto di elettorato passivo non idonea a far “degradare” a “interesse legittimo” la posizione del ricorrente.
[1] Corte Cost., 10 maggio 1982, n. 87.
[2] Cons. Stato, sez. IV, 16 novembre 2011, n. 6051.
[3] Cass. civ., sez. un., ord. 6 aprile 2012, n. 5574.
[4] Cons. Stato, sez. V, 15 luglio 2013, n. 3826.