Ateismo e propaganda
La sez. I Civ. Cass., con l’ordinanza 17 aprile 2020, n. 7893, interviene per delimitare i contorni del diritto di pensiero, ex art. 21 Cost., nella sua particolare estensione: mediante affissione di manifesti con i quali si esprimeva una libertà “di non credere”: «10 milioni di italiani vivono bene senza D. E quando sono discriminati» il promotore (logo e la denominazione dell’associazione) dell’iniziativa si trova «al loro fianco», risultando una professione pubblica di ateismo.
La rappresentazione non trovava riscontro positivo nella sua estensione contenutistica al punto da essere respinta da una giunta comunale: «risultando il contenuto della comunicazione potenzialmente lesivo nei confronti di qualsiasi religione».
Discriminazione e comunicazione
Seguiva ricorso al Tribunale (rigettato) per l’accertamento del carattere discriminatorio del rifiuto a cui l’Amministrazione resisteva, deducendo un’errata rappresentazione grafica, «tale da urtare la sensibilità del sentimento religioso in generale».
Seguiva Appello, confermativo del primo giudice, con il quale non si ravvisava una condotta discriminatoria mancando:
- una qualsiasi forma di propaganda a favore dell’ateismo o dell’agnosticismo (mancanza di un credo religioso);
- un trattamento differenziato riservato all’associazione istante rispetto ad altre situazioni simili;
- assenza di una lesione alla libertà di espressione del pensiero atteso il principio di laicità dello Stato a salvaguardia della libertà di religione nell’ottica del pluralismo confessionale e culturale, e nel rispetto della dignità della persona umana (ex 2 Cost.).
Le questioni di riferimento: la libertà di non professare
A questo punto, l’Associazione si rivolge al giudice di ultima istanza che accoglie le censure ritenendole fondate, descrivendo i diritti di libertà:
- sia di professare il proprio credo (ex 19 Cost.);
- che il proprio pensiero inteso quello di propaganda religiosa (ex 21 Cost.);
La «libertà di coscienza», con un primo orientamento[1], può estendersi all’ateismo «dove finisce la fede religiosa», escludendosi, in tal modo, che anche il credo ateo o agnostico possa trovare fondamento nella disposizione dell’art. 19 Cost.
Tale primo orientamento è stato successivamente stravolto:
- la tutela della c.d. «libertà di coscienza» dei non credenti rientra nella più ampia libertà in materia religiosa assicurata dall’art. 19 Cost. e dall’art. 21 Cost., da intendersi anche in senso negativo, escludendo il nostro ordinamento costituzionale ogni differenziazione di tutela della libera esplicazione sia della fede religiosa sia dell’ateismo[2];
- il fondamento della «libertà di coscienza» in relazione all’esperienza religiosa rappresenta un aspetto della dignità della persona umana, riconosciuta e dichiarata inviolabile dall’art. 2 Cost., e che, in quanto tale, spetta ugualmente tanto ai credenti quanto ai non credenti, siano essi atei o agnostici (ex 3 Cost.)[3];
- la «libertà di coscienza» in essa ricompresa la libertà di non avere alcun credo religioso (ovverosia, di professarsi ateo o agnostico, c.d. pensiero religioso «negativo»), trova tutela piena ed incondizionata nel diritto comunitario ed internazionale (ex 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e art. 9 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo).
I pronunciamenti comunitari
A livello comunitario:
- la libertà di coscienza e di religione include la libertà di cambiare religione o convinzione, così come la libertà di manifestare la propria religione o la propria convinzione individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti[4];
- la libertà di coscienza costituisce un bene prezioso per gli atei, gli agnostici, gli scettici e gli indifferenti[5];
- la libertà di pensiero, coscienza e religione costituisce il fondamento di qualunque società democratica a tutela non solo dei credenti, ma anche degli atei, degli agnostici, scettici o indifferenti, in quanto essa protegge tanto il diritto di professare e praticare una fede quanto quello di non aderire a nessun credo[6].
La libertà di coscienza e laicità dello Stato
Dalla disciplina nazionale e comunitaria si comprende che il diritto degli atei ed agnostici di professare un credo che si traduce nel rifiuto di una qualsiasi confessione religiosa (c.d. pensiero religioso «negativo»), rientra nella «libertà di coscienza» sancita dall’art. 19 Cost., è tutelato – a livello nazionale ed internazionale – al pari e nella stessa misura del credo religioso «positivo», che si sostanzia, invece, nell’adesione ad una determinata confessione religiosa.
Correlato a tale diritto si coniuga il «principio di laicità» dello Stato, inteso come neutralità imposta ai poteri pubblici dalla loro incompetenza in materia spirituale, quale non ingerenza dei pubblici poteri nella sfera della libertà religiosa demandata alle scelte esclusive dei singoli.
Il «principio supremo di laicità», caratterizza – in senso pluralistico – la forma del nostro Stato[7]: un atteggiamento equidistante ed imparziale nei confronti di tutte le confessioni religiose, e la parità nella protezione della coscienza di ciascuna persona che si riconosce in una fede, quale che sia la confessione di appartenenza, ed anche se si tratta di una fede esclusivamente laica o agnostica[8].
Manifesti e libertà di professare il credo e il pensiero
Il precipitato di tali orientamenti, comporta che i manifesti («farne propaganda») di professare la condizione di ateo o agnostico rientra pienamente nella libertà di coscienza, ex art. 19 Cost., nelle sue più diverse forme di finalizzazione (anche ai fini di fare proselitismi)[9], anche in forma critica, purché non si traduca in forme di aggressione o di vilipendio della fede da altri professata.
Queste manifestazioni mediante affissioni di manifesti si associano alla libertà di pensiero, ex art. 21 Cost., la cui previsione è, del pari, ampia e onnicomprensiva, legittimando la manifestazione del pensiero «con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione»: apre a tutte le possibili forme di diffusione del proprio credo religioso salvo che non si risolvano in un pregiudizio degli altri, in violazione del diritto inviolabile della persona (ex art. 2 Cost.)[10].
In effetti, in relazione agli artt. 2, 3 e 19 Cost. la libertà religiosa, intesa nel più ampio significato di «libertà di coscienza», non può comportare una discriminazione nei limiti della libertà negativa di non professare alcuna religione: l’opzione negativa degli atei e degli agnostici – nella misura in cui non si ponga come aggressione e denigrazione della religione altrui – deve trovare rispetto e tutela[11].
Divieto di discriminazione e parità di trattamento
Dunque, la professione del proprio pensiero religioso, se manifestato e pubblicizzato in modo decoroso e senza offendere altri, ben può essere autorizzata e il diniego di affissione, da parte di un’Amministrazione locale, risulta ingiustificato: i manifesti possono essere censurati solo qualora comportino un vilipendio, traducendosi in un atteggiamento di disprezzo verso le altre religioni, traducendosi in una mera offesa fine a se stessa, ovverosia in un vulnus del diritto di professione della propria fede da parte dei fedeli delle varie confessioni religiose[12].
Si comprende che il riconoscimento del diritto paritario degli atei e degli agnostici, rispetto a quello dei fedeli delle diverse religioni, di professare il proprio pensiero religioso «negativo», discende, altresì, il divieto – imposto dagli artt. 2, 3 e 19 Cost. – a favore dei medesimi di essere discriminati nella professione di tale pensiero, con il riflesso che il diniego dell’affissione di manifesti di propaganda dei non credenti risulta illecita: in violazione al «principio della parità di trattamento» che si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta.
La Corte conclude il pronunciamento riaffermando il diritto a non subire discriminazioni, «come una posizione di diritto soggettivo assoluto a presidio di un’area di libertà e potenzialità del soggetto, possibile vittima delle discriminazioni, rispetto a qualsiasi tipo di violazione – e dunque anche sul piano della discriminazione religiosa – posta in essere sia da privati che – come nella specie – dalla Pubblica Amministrazione, perfino di fronte all’esercizio di poteri discrezionali ed autoritativi da parte di quest’ultima»[13].
In definitiva, la «libertà di coscienza» anche agli atei o agnostici, discende il diritto di questi ultimi di farne propaganda nelle forme che ritengano più opportune, attesa la previsione aperta e generale dell’art. 19 Cost., correlato alla libertà di pensiero (ex art. 21 Cost.) e il principio della «parità di trattamento», che deve assicurare una forma di uguaglianza tra tutte le forme di religiosità, in esse compreso il credo ateo o agnostico, e la sua violazione integra la discriminazione vietata.
[1] Corte cost., sentenza n. 58 del 1960.
[2] Corte cost., sentenza n. 117 del 1979.
[3] Corte cost., sentenze n. 334 del 1996 e n. 149 del 1995, secondo cui la libertà di coscienza è un diritto inviolabile dell’uomo che, come tale, esige una garanzia uniforme, o almeno omogenea nei vari ambiti in cui si esplica.
[4] Corte giustizia, Grande sezione, 14 marzo 2017, Digital reports.
[5] Corte EDU, 18 febbraio 1999, Buscarini e altri c. San Marino.
[6] Corte EDU, 29 marzo 2007, Spampinato c. Italia.
[7] Il «principio supremo della laicità dello Stato» come uno dei profili della forma di Stato delineata dalla Costituzione, trova la sua enunciazione nell’art. 1 del Protocollo addizionale al Concordato tra Stato e Chiesa del 1984, a tenore del quale: «Si considera non più in vigore il principio, originariamente richiamato dai Patti lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano», Corte cost., sentenza 203 del 1989.
[8] Corte cost., sentenza n. 508/2000.
[9] Corte cost., sentenza n. 188 del 1975.
[10] Si tratta dei limiti del diritto, Corte cost., sentenza n. 63 del 2016 e n. 67 del 2017.
[11] Corte cost., sentenza n. 203 del 1989.
[12] Cass., 7 aprile 2015, n. 41044.
[13] Cass., sez. unite, 30 marzo 2011, n. 7186.