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Articolo Pubblicato il 7 Agosto, 2024

Prestazione lavorativa e diritto al buono pasto

Prestazione lavorativa e diritto al buono pasto

La sez. Lavoro della Corte di cassazione, con l’Ordinanza 31 luglio 2024, n. 21440, delimita l’utilizzo del buono pasto alla prestazione lavorativa eseguita, al termine della quale può usufruire del servizio mensa, nel senso che risulta dovuto dopo un orario di lavoro eccedente le sei ore (turno).

In termini diversi, il diritto alla mensa (il caso è riferito ad un’Azienda sanitaria) viene riconosciuto nei giorni in cui il lavoratore presta la propria opera, superando l’orario stabilito dalla contrattazione: una dovuta pausa dopo il turno di lavoro[1].

La natura del buono pasto

La norma contrattuale di riferimento viene interpretata (massima) con la possibilità di usufruire della mensa per coloro che prestano attività lavorativa di mattino con prosecuzione nelle ore pomeridiane.

Ciò posto, la Corte consolida un orientamento ritenendo che il diritto alla fruizione del buono pasto non ha natura retributiva ma costituisce una erogazione di carattere assistenziale[2], collegata al rapporto di lavoro da un nesso meramente occasionale, avente il fine di conciliare le esigenze di servizio con le esigenze quotidiane del lavoratore (una modalità dell’organizzazione)[3].

Ne discende che il buono pasto non è configurabile come un emolumento integrativo automatico della retribuzione ma come un “benefit” di carattere assistenziale, la cui fruizione giornaliera è strettamente correlata alle concrete modalità di espletamento della prestazione lavorativa da parte del singolo dipendente pubblico interessato, ovviamente in osservanza delle prescrizioni stabilite dalla contrattazione collettiva in ordine alla sede ed all’orario di lavoro[4].

Il buono pasto è un beneficio che non viene attribuito senza scopo, in quanto la sua corresponsione è finalizzata a far sì che, nell’ambito dell’organizzazione del lavoro, si possano conciliare le esigenze del servizio con le esigenze quotidiane del lavoratore, al quale viene così consentita – laddove non sia previsto un servizio mensa – la fruizione del pasto, i cui costi vengono assunti dall’Amministrazione, al fine di garantire allo stesso il benessere fisico, ex comma 1, dell’art. 7 del d.lgs. 165/2001[5], necessario per la prosecuzione dell’attività lavorativa, nelle ipotesi in cui l’orario giornaliero corrisponda a quello contrattualmente stabilito per la fruizione del beneficio[6].

Invero, siamo in presenza di un istituto che trova riscontro nella disciplina UE dell’organizzazione dell’orario di lavoro che – anche sulla base dei Trattati – è sempre stata collegata alla promozione del miglioramento dell’ambiente di lavoro, nel senso di garantire un più elevato livello di protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori[7].

Si comprende, quindi, che, proprio per la suindicata natura, il buono pasto:

  • non è configurabile come un corrispettivo obbligatorio della prestazione lavorativa, ma si collega essenzialmente all’orario di lavoro, dove superato un limite stabilito nei CCNL, si matura il diritto ad una pausa, che possa consentire il recupero psicofisico, anche con il consumo del pasto[8];
  • è strettamente collegato alle disposizioni della contrattazione collettiva che lo prevedono[9].

Anche nel testo legislativo (richiamato nelle note) la consumazione del pasto è collegata alla pausa di lavoro ed avviene nel corso della stessa.

L’assenza di prestazione lavorativa

Una diversa fruizione, fuori dalla contrattazione collettiva non può essere riconosciuta, rilevando che l’effettuazione della pausa pranzo è condizione per l’attribuzione del buono pasto e che tale effettuazione, a sua volta, come regola generale, presuppone che il lavoratore osservi in concreto un orario di lavoro giornaliero di almeno sei ore (quello stabilito dal CCNL), sicché la suddetta attribuzione compete solo per le giornate in cui si verifichino le suindicate condizioni.

L’erogazione del buono pasto rientra tra le scelte organizzative per assolvere l’esigenza di offrire, nello stesso tempo, ai lavoratori che effettuano un orario prolungato la possibilità di recuperare le loro energie psicofisiche con una pausa da utilizzare per l’eventuale consumazione di un pasto, laddove non esista un servizio mensa, una compensazione al disagio di chi sia costretto, in ragione dell’orario di lavoro osservato, a mangiare fuori casa, dimostrando una correlazione diretta tra prestazione eseguita e recupero psicofisico (utile a consumare il pasto), escludendo che l’attribuzione del buono pasto possa essere sostituito dalla corresponsione dell’equivalente in denaro.

Le condizioni per l’assegnazione del buono pasto

Il buono pasto è riconnesso, nei termini sopra descritti, ad una pausa, destinata al pasto, il sorgere del diritto dipende dal fatto che quella pausa sia in concreto fruita, il cui presupposto cogente è la prestazione lavorativa, in mancanza della quale non può essere erogato, se non violando le norme del CCNL e le norme di riferimento a cui accedono (le quali rinviano alla cit. contrattazione).

Si può ritenere che quando la pausa pranzo non sia stata fruita, anche per rinuncia ad essa della parte lavoratrice, ovvero mancano le condizioni per la pausa, per la mancata prestazione lavorativa, non sono integrati gli estremi cui la disciplina collettiva subordina il diritto alla prestazione del buono pasto: non risulta lecita la concessione del buono pasto indipendentemente dalla prestazione (che ricomprende il caso di assenza dal servizio/posto di lavoro).

L’organizzazione del lavoro

La Corte si sofferma sull’organizzazione del lavoro dove l’assenza del servizio mensa (in alternativa)[10] dovrà essere garantito con modalità sostitutive, alias buono pasto, rilevando (analizzando il contratto di lavoro) che il diritto alla mensa va riconosciuto a tutti i dipendenti, ivi compresi quelli che prestano la propria attività in posizione di comando, nei giorni di effettiva presenza al lavoro, in relazione alla particolare articolazione dell’orario, valorizzando, in definitiva, la reale presenza al lavoro, ove il buono pasto si consuma oltre l’orario di lavoro (non in servizio) nella pausa.

Viene chiarito che l’organizzazione e la gestione dei suddetti servizi, rientrano nell’autonomia gestionale delle aziende, mentre resta ferma la competenza del CCNL nella definizione delle regole in merito alla fruibilità e all’esercizio del diritto di mensa da parte dei lavoratori.

L’articolazione dell’orario di lavoro

In relazione alle previsioni contrattuali si dovrà traslare il diritto con riferimento alla articolazione dell’orario di lavoro, dove in funzione del tempo lavoro si attribuisce il diritto alla mensa ai dipendenti presenti in servizio, ovvero il buono pasto, da consumarsi nel momento della pausa (fuori dell’orario di servizio, il tempo a tal fine impiegato è rilevato con i normali strumenti di controllo dell’orario e non deve essere superiore a un tempo prestabilito, generalmente trenta minuti), ossia al termine della prestazione lavorativa.

La pausa è inderogabile collegata alla necessità di recupero delle energie psicofisiche, consentendo di configurare la fattispecie in termini di diritto-dovere, riflettendo interessi ascrivibili, da un lato, al dipendente e, dall’altro, alla stessa Amministrazione di appartenenza: in termini più elementari, non vi è ragione di distinguere tra pausa psicofisica e pausa pranzo[11], sia pure dovendosi intendere questa seconda innanzitutto rispondente ad esigenze nutrizionali del dipendente, oltre che di ristoro delle energie psicofisiche, il tutto in ragione dell’attività lavorativo appena conclusa.

Da questo aspetto si ricava, ancora una volta, che la fruizione del pasto – ed il connesso diritto alla mensa o al buono pasto – è prevista nell’ambito di un intervallo non lavorato; diversamente, non potrebbe esercitarsi alcun controllo sulla sua durata, dovendo convenire sul fatto che l’articolazione dell’orario di lavoro è quella collegata alla fruizione di un intervallo di lavoro: è dirimente l’aver svolto effettivamente la prestazione lavorativa in assenza della quale non vi è la necessità di una pausa, ossia di un recupero psicofisico.

Indicazioni

Si può concludere che il diritto ai buoni pasto può essere riconosciuto solo ove il lavoratore svolga l’attività lavorativa per un determinato orario di lavoro (più di sei ore, si matura il diritto ad un intervallo non di lavoro), essendo legato ad un vincolo di tempo[12], dato che solo in questo caso, dopo la prestazione lavorativa potrà beneficiare della pausa pranzo e del relativo buono, con l’inevitabile conseguenza che in assenza di tali condizioni l’erogazione del buono dovrà cessare, salvo le verifiche su eventuali responsabilità[13].

Su questo ultimo aspetto, si potrebbe ipotizzare la presenza di una colpa grave, non avendo il responsabile del servizio usato una condotta diligente, con una precauzione minima, quale la previa verifica dell’esistenza di una fonte legittimante l’esborso del buono[14].

[1] Ciò perché il diritto alla mensa è collegato al diritto alla pausa, che, a sua volta, presuppone, come regola generale, solo che il lavoratore, osservando un orario di lavoro giornaliero di almeno sei ore, abbia diritto ad un intervallo non lavorato, Cass. civ., sez. lav., Ordinanza 31 ottobre 2022, n. 32113, idem, Cass., civ., sez. lav., 1° marzo 2021, n. 5547.

[2] Il buono pasto rappresenta «una sorta di rimborso forfettario delle spese che il lavoratore, tenuto a prolungare la propria permanenza in servizio oltre una certa ora, deve affrontare per consumare il pranzo… una componente del trattamento economico spettante ai dipendenti pubblici, che rientra nella regolamentazione del contratto di diritto privato che lega tali dipendenti “privatizzati” all’ente di appartenenza», Corte cost., 19 luglio 2013, n. 225.

[3] L’erogazione del buono pasto, da parte delle Amministrazioni pubbliche, è conseguente alle previsioni contenute nella contrattazione collettiva, trattandosi, in sostanza, di spesa che l’Ente sostiene in relazione ai rapporti di lavoro dipendente in essere e, pertanto, rientra fra quelle inerenti il complessivo costo del personale dipendente dell’Ente, Corte conti, sez. contr. Piemonte, n. 14/2012/SRCPIE/PAR.

[4] Corte conti, sez. giur. Appello Siciliana, 21 dicembre 2021, n. 214, ove si osserva che in tale contesto, caratterizzato dalla necessità dell’effettiva presenza in servizio nella sede dell’ufficio d’appartenenza od eventualmente in altro ufficio pubblico, che venga, di volta in volta, individuato in base a comprovate ed ineludibili esigenze istituzionali, il buono-pasto non spetta ovviamente al lavoratore che, in una determinata giornata, operi totalmente o parzialmente in regime di “smart working”, ossia soggiornando nella propria abitazione od in altro domicilio ed avvalendosi di strumentazione telematica.

[5] Il buono pasto è un beneficio che viene attribuito allo scopo di far sì che, nell’ambito dell’organizzazione del lavoro, si possano conciliare le esigenze del servizio con le esigenze quotidiane del lavoratore, al quale viene così consentita – laddove non sia previsto un servizio mensa – la fruizione del pasto, i cui costi vengono assunti dall’Amministrazione, al fine di garantire allo stesso il benessere fisico necessario per la prosecuzione dell’attività lavorativa, nelle ipotesi in cui l’orario giornaliero corrisponda a quello contrattualmente stabilito per la fruizione del beneficio, TAR Toscana, sez. I, 5 novembre 2021, n. 1457.

[6] Cass. civ., sez. lav., 28 novembre 2019, n. 31137. Il valore dei pasti non costituisce elemento integrativo della retribuzione, allorché il servizio mensa rappresenti un’agevolazione di carattere assistenziale, anziché un corrispettivo obbligatorio della prestazione lavorativa, per la mancanza di corrispettività della relativa prestazione rispetto a quella lavorativa e di collegamento causale tra l’utilizzazione della mensa ed il lavoro prestato, sostituendosi ad esso un nesso meramente occasionale con il rapporto, Cass. civ., sez. lav., 1° dicembre 1998, n. 12168.

[7] Vedi, le direttive 93/104/CE e 2000/34/CE, cui è stata data attuazione con il d.lgs. n. 8 aprile 2003, n. 66, nonché l’art. 31, Condizioni di lavoro giuste ed eque, della Carta dei diritti fondamentali UE.

[8] Cfr. il comma 1, dell’art. 8, Pause, del decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66, Attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE concernenti taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, ove nel recupero fisico si associa anche il consumo del pasto: «Qualora l’orario di lavoro giornaliero ecceda il limite di sei ore il lavoratore deve beneficiare di un intervallo per pausa, le cui modalità e la cui durata sono stabilite dai contratti collettivi di lavoro, ai fini del recupero delle energie psico-fisiche e della eventuale consumazione del pasto anche al fine di attenuare il lavoro monotono e ripetitivo».

[9] Cass. civ., sez. lav., Ordinanza 21 ottobre 2020, n. 22985.

[10] La “impossibilità” di accedere alla mensa, rilevante ai fini della sussistenza del diritto al buono-pasto (in mancanza dell’attivazione di convenzioni con altre mense o con ristoranti), sussiste, pertanto, anche quando raggiungerla richiederebbe ai lavoratori un sacrificio sproporzionato, Cons. Stato, sez. II, 19 maggio 2023, n. 5007.

[11] Cons. Stato, sez. II, 28 luglio 2023, n. 7390.

[12] L’Aran (parere CFL 204/2023) non ha riconosciuto il buono pasto per le prestazioni in “lavoro agile” in assenza di vincoli di orario e di lavoro, aspetto inconciliabile con la fruizione del buono pasto; mentre per il “lavoro da remoto”, è possibile il riconoscimento, in presenza di un vincolo di tempo e di luogo.

[13] L’attribuzione dei buoni pasto rappresenta una agevolazione di carattere assistenziale, che non corrisponde all’erogazione di una somma in denaro, bensì titoli non monetizzabili destinati esclusivamente a esigenze alimentari in sostituzione del servizio mensa. Si tratta, dunque, di benefici destinati a soddisfare esigenze di vita primarie e fondamentali dei dipendenti medesimi, di valenza costituzionale, Cons. Stato, sez. IV, 5 aprile 2018, n. 2115, idem TAR Lazio, Roma, sez. III quater, 29 marzo 2017, n. 3988.

[14] Corte conti, sez. II giur. centrale, 6 febbraio 2018, n. 55.