La Corte dei Conti, sez. giurisdizionale Lazio, con la sentenza n. 107 del 12 marzo 2024, condanna un dipendente pubblico per l’uso improprio di un bene, ossia l’utilizzo del proprio ufficio come centro di incontro per attività di usura.
Il fatto
La procura erariale, sulla base di un accertato penale irrevocabile[1], citava in giudizio un dipendente pubblico (arrestato e successivamente licenziato) per l’aver posto in essere attività di usura e di estorsione (non riconducibili ad una prestazione lavorativa alle dipendenze della PA, c.d. sviamento), anche all’interno della sede di servizio: attività “finanziaria” svolta con assiduità (diversi anni) e sistematicità attraverso la concessione di prestiti a tasso usurario nei confronti di numerosi soggetti, sotto l’insegna di un ufficio pubblico (vicenda dall’ampio clamore mediatico).
È noto, per ciò che interessa, che il vincolo della c.d. storicità dei fatti nella loro dimensione fenomenica, applicabile per giurisprudenza consolidata al giudizio contabile, comporta che vi è completa autonomia tra giudizio penale e giudizio amministrativo contabile, con il limite però di cui all’art. 651, Efficacia della sentenza penale di condanna nel giudizio civile o amministrativo di danno, c.p.p., applicabile a qualsiasi processo, con la conseguenza che la sentenza irrevocabile di condanna penale fa stato quanto all’accertamento sia dei fatti materiali sia della condotta illecita dell’autore, restando demandato al giudice contabile il compito di verificare la sussistenza del nesso causale tra condotta illecita ed evento di danno erariale, con preclusione di ogni statuizione che venga a collidere con i presupposti, le risultanze e le affermazioni conclusionali di detto pronunciamento[2].
Dunque, si formulavano le richieste per i reati commessi (con un’estensione non solo a quelli riferiti alla PA: tutti aspetti rigettati dal convenuto) di danno:
- non patrimoniale all’immagine (azione inammissibile);
- da disservizio/lesione del nesso sinallagmatico (indebita percezione della retribuzione o mancata resa del servizio, determinato dall’alterazione del rapporto sinallagmatico e dalla inutile erogazione, al dipendente infedele, della retribuzione): rientra nell’ampia categoria del danno patrimoniale e consiste nel pregiudizio che la condotta illecita del dipendente arreca al corretto funzionamento dell’apparato pubblico, determinando, attraverso l’espletamento di un servizio al di sotto delle caratteristiche di qualità e quantità richieste, il mancato conseguimento degli obiettivi di legalità, di efficienza, di efficacia, di economicità e di produttività dell’azione pubblica;
- attività incompatibile, in violazione all’art. 53, comma 1, del d.lgs. 165/2001 (TUPI) e dell’art. 60 del DPR n. 3/1957 (tipicizzando una posta di danno in caso di omesso riversamento).
Danno all’immagine
Pare giusto rammentare che il danno all’immagine si evidenzia con la presenza di una sentenza passata in giudicato dalla quale emerge la responsabilità penale (coscienza e volontà di tenere una condotta illecita) del convenuto per un reato contro la PA, commesso da un soggetto ad essa legato da un rapporto di servizio, e il clamore mediatico derivante dalla condotta illecita del soggetto riconosciuto come responsabile: il danno all’immagine della PA di conseguenza deve ritenersi sussistente quando vi è stato provocato un grave vulnus all’onore e al prestigio dell’Amministrazione e per il clamor fori derivato dalla diffusione della notizia (da articoli di stampa locale e/o nazionale) ingenerando nell’opinione pubblica, non solo a livello locale/regionale ma anche nazionale, sfiducia nell’apparato amministrativo[3].
In effetti, il danno all’immagine è frutto dell’elaborazione giurisprudenziale dei giudici contabili e trova il proprio fondamento normativo nel quadro della disciplina della responsabilità per danno ingiusto all’erario e nella tutela della reputazione e della credibilità della Pubblica Amministrazione (ex art. 97 Cost.), lesi dalla condotta illecita dei propri dipendenti[4].
Inoltre, a seguito dell’abrogazione dell’art. 7 della legge n. 97/2001, operata dall’art. 4, comma 1, lett. h), dell’all. 3) al c.g.c., è stato ampliato il novero dei reati in relazione ai quali è configurabile il danno all’immagine: l’abrogazione di tale norma, unitamente alla previsione di cui all’art. 4, comma 2, dell’all. 3) al Codice, consente di esercitare l’azione per il risarcimento del danno all’immagine per tutti i reati commessi “a danno della PA”, intendendosi per tali reati quelli che, pur non essendo reati c.d. “propri”, comunque ne avevano pregiudicato l’immagine pubblica[5].
La sentenza
Le richieste vengono parzialmente accolte, limitandosi alla sola parte inerente al danno qualificato come “da disservizio/lesione nesso sinallagmatico”.
Il danno non patrimoniale all’immagine[6] per reati comuni non può estendersi oltre alla tipologia dei delitti contro la Pubblica Amministrazione, di cui al libro II, titolo II, capo I del codice penale, confermando la natura del danno all’immagine che esige per essere risarcibile, di superare una soglia minima di lesività del bene protetto che, secondo l’id quod plerumque accidit, può verificarsi proprio a seguito dei reati contro la Pubblica Amministrazione, caratterizzati da particolare gravità e dalla evidente compromissione di valori anche costituzionalmente protetti che attengono alla finalizzazione dell’azione amministrativa (ex art. 97 Cost.)[7].
Il danno per attività incompatibili, quindi, vietate e non autorizzabili dalla PA, non può essere parametrata all’attività illecita concretamente svolta non riconducibile, anche con un esteso sforzo interpretativo, al genus di quelle definite nell’art. 53 del TUPI, ovvero (a voler ritenere un’assimilazione) si giungerebbe a duplicare una violazione del nesso sinallagmatico (già presente nella prima categoria di danno nel ritenere l’attività svolta illecitamente retribuita).
Il danno da lesione del nesso sinallagmatico, risulta coerente con la circostanza che il dipendente infedele, esercitando l’attività illecita nella sede di servizio, eludeva i propri doveri di fedeltà al servizio del proprio datore di lavoro (ex artt. 98 Cost. e 2105 c.c.), percependo indebitamente uno stipendio con conseguente nocumento patrimoniale dell’Amministrazione di appartenenza.
Una specifica voce di danno
La configurabilità del danno da lesione del rapporto sinallagmatico si presenta quando le energie lavorative vengono spese per effettuare altro, ossia senza prestare l’attività lavorativa a favore della PA: le prestazioni non sono state solo estranee, ma anche contrarie ai doveri d’ufficio, rilevando, altresì, che non è necessario provare l’inadeguato svolgimento del rapporto lavorativo, ma soltanto il compimento, in servizio, di attività illecite estranee ai doveri lavorativi così da privare di causa (ossia, il c.d. sinallagma) la corresponsione di parte della retribuzione, percepita in modo indebito, donde la voce di danno.
Questa specie di danno non va confusa con il danno da disservizio che si caratterizza per gli effetti prodotti sull’organizzazione in termini di necessaria attività da porre in essere per ovviare alle criticità create con la condotta illecita:
- per la configurabilità del danno da disservizio assumono rilievo, fra le altre cose, anche una serie di condotte colpevolmente disfunzionali che incidono sulla qualità del servizio, oltre che sulla sua materiale esecuzione;
- tutte queste condotte ed effetti devono essere provate/i nel concreto con allegazioni probatorie.
Mancata attivazione
Inutile osservare (in aggiunta) che l’“abitudine” a non effettuare correttamente la prestazione lavorativa, magari omettendo sistematicamente di prestare quella diligenza minima richiesta (rectius negligenza inescusabile), si presenta anche (al di là dell’esito erariale)[8] quando il dipendente pubblico (nell’arco di tempo) omette di riscuotere coattivamente (emissione dei ruoli, ovvero delle dovute comunicazioni al concessionario) i tributi locali[9], determinando sia la decadenza che la prescrizione dei relativi crediti tributari del Comune, con conseguente danno[10].
Sul danno erariale, per la mancata attivazione delle procedure di riscossione di canoni dovuti, ad esempio dal concessionario di servizi (bar, piccola ristorazione e rivendita dei giornali all’interno della PA), è stato rilevato[11], che la gravità della colpa risulta conseguente alla circostanza (provata) che il soggetto responsabile era a conoscenza degli omessi pagamenti: situazione a fronte della quale non ha assunto nessuna iniziativa finalizzata al recupero delle somme, inerzia protrattasi per un considerevole lasso di tempo (una negligenza persistente e inescusabile).
Appare di solare evidenza come un simile comportamento, di assoluta trascuratezza, si sia discostato notevolmente da un canone minimo di diligenza e perizia che ci si può aspettare da colui che riveste un ruolo pubblico, specie in relazione all’elevato grado di responsabilità ricoperta (dirigente dell’ufficio entrate), il quale, in quanto tale, non può omettere di azionare (comportamento dovuto) le procedure per la riscossione dei crediti, soprattutto quando di ingente valore e a fronte di un’inerzia da tempo accertata (aspetto che avrebbe dovuta indurre, diversamente, alla massima attenzione).
Breve (dis)appunto
La vicenda segnala (le vicende), ancora una volta, come determinate condotte illecite possono compiersi all’interno di un ambiente pubblico nell’arco di diversi anni senza destare sospetto, dimostrando come le misure di prevenzione della corruzione a volte possano essere del tutto inadeguate, pur in presenza di un modello del tutto adeguato, fornito di indicatori, di monitoraggi, di pubblicazioni: forse (come aggiungono alcuni) sarebbe più soddisfacente (utile) investire sulla formazione di una cultura etica piuttosto che su sistemi digitalizzati di controllo e di perenne adempimento (a volte, squisitamente autoreferenziali).
Si agirebbe (così facendo) sulla condotta del singolo (con effetti virtuosi e di imitazione) invece di ostinarsi sulla forma della norma (il c.d. trionfo della burocrazia): quell’adempimento di centinaia di obblighi, dal PTPCT al PIAO, passando per il MOG e le FAQ, adempimento estraneo ad ogni logica di ragionevolezza e proporzionalità (il sistema non tiene conto delle diversità organizzative) che esso stesso professa (ovviamente, senza esserne coinvolto, essendo applicabile il meccanismo sempre “agli altri”): una celebrazione di dati e di report lontani dalla realtà (la c.d. quotidianità), segno di quell’invarianza del CPI di Transparency 2023[12]: «La corruzione in Italia non si risolve criticando l’indice di percezione, cioè il termometro che segna la febbre, e che resta uno strumento utile. Lavoriamo invece, insieme, per combatterla… Aggredire il termometro è sbagliato… Più combattiamo la corruzione, meglio stiamo tutti… le misure anticorruzione non sono un adempimento faticoso, ma lo strumento che ci porta a stare meglio»[13].
[1] Si annota che la costituzione di parte civile nel processo penale ha effetto interruttivo permanente della prescrizione dell’azione risarcitoria, fino alla definizione del processo, Cass. civ., SS.UU, sentenza n. 8348/2013; Corte conti, SS.RR. QM/8/2004 e sez. centr., sentenze 58/2021 e 478/2019.
[2] Corte conti, sez. giur. Liguria, 13 dicembre 2023, n. 107.
[3] Il danno all’immagine arrecando una lesione del decoro e del prestigio della Pubblica Amministrazione e determinando perdita di credibilità ed affidabilità presso i cittadini, pregiudica valori primari di rilievo costituzionale, quali la legalità dell’azione amministrativa, il buon andamento e l’imparzialità della Amministrazione, Corte conti, sez. giur. Veneto, sentenze n. 45/2017 e n. 29/2017.
[4] Corte conti, sez. giur. Toscana, sentenza n. 307/2023.
[5] Corte conti, sez. giur. Veneto, sentenza n. 142/2023.
[6] Il danno all’immagine viene, quindi, identificato nella lesione del prestigio dell’Amministrazione, nella perdita di fiducia dei cives nella legalità, efficienza ed efficacia dell’agere publicum, per l’effetto di condotte illecite dei propri dipendenti e nella immediata riferibilità, da parte dell’opinione pubblica, della condotta contra ius non soltanto agli autori materiali dell’illecito, ma anche alla stessa Istituzione di appartenenza, Corte conti, sez. giur. Campania, 22 aprile 2024, n. 234.
[7] Corte conti, sez. giur. Lazio, sentenza n. 305/2023.
[8] Corte conti, sez. giur. Marche, 22 aprile 2024, n. 47.
[9] Ove il danno consista in una mancata entrata di natura tributaria, la decorrenza della prescrizione amministrativa va individuata, non già nel momento in cui si sarebbe dovuto introitare il tributo, bensì nella data in cui il credito erariale è divenuto non più esigibile per effetto di maturata decadenza o prescrizione e, quindi, il danno da potenziale è divenuto certo ed attuale, Corte conti, sez. giur. Sicilia, sentenza n. 1044/2014; sez. giur. Campania, sentenza n. 866/2018.
[10] Cfr. Cass. civ., sez. V, ordinanza n. 14043/2019, ove si chiarisce che qualora l’ente si avvalga del sistema di riscossione mediante ruolo, opera in via generale il termine di decadenza annuale, di cui all’art. 72 del d.lgs. n. 507/1993, poiché tale sistema non ha subito modifiche per effetto della legge n. 296/2006.
[11] Corte conti, sez. giur. Emilia Romagna, 15 marzo 2024, n. 22.
[12] L’indice di Percezione della Corruzione (CPI) di Transparency International che classifica i Paesi in base al livello di corruzione percepita nel settore pubblico, attraverso l’impiego di 13 strumenti di analisi e di sondaggi rivolti ad esperti provenienti dal mondo del business. Il punteggio finale è determinato in base ad una scala che va da 0 (alto livello di corruzione percepita) a 100 (basso livello di corruzione percepita), transparency.it/indice-percezione-corruzione.
[13] Presidente ANAC, Percezione della corruzione, Italia al 42° posto su 180 Paesi. Busìa: Serve regolamentare le lobby, anticorruzione.it, 30 gennaio 2024.