Gli organi di partecipazione si sono sempre caratterizzati, nella storia recente dello Stato, per una loro particolare individualità che veniva riconosciuta dall’Ordinamento nel suo momento di massima astrattezza che caratterizzava l’unitarietà dei diversi elementi che costituivano la sua essenza, attribuendo loro una posizione giuridica ben distinta rispetto a quella di tutti gli altri soggetti.
La partecipazione è, quindi, una necessità fisiologica al sistema e metodologica per la struttura in quanto permette di operare in piena coscienza con le indicazioni formulate dagli interessati e le mediazioni di carattere politico, che sono alla base delle scelte strategiche e delle prerogative degli organi di “governo”.
Il diritto di entrare nelle traiettorie decisionali, sia come singoli che indirettamente come organizzazioni, comitati, consulte, e similari, è un fenomeno crescente che coinvolge una vasta gamma di interessi e forme giuridiche, atteso che lo Stato contemporaneo ha ormai perso la matrice liberale e autoritaria per passare alla componente sociale e liberista, in un connubio di effettività che porta o porterà (forse) alla trasformazione dell’unitarietà dello stesso Stato per un primato delle “Autonomie”, in un più generale principio di sussidiarietà orizzontale.
La semplificazione, la liberalizzazione, la delegificazione, le dismissioni societarie in ambito economico e dei servizi, sono il segnale inequivocabile dell’abbandono di una centralità e di una visione autoritaria dello Stato per un sistema che rivendica la libertà della periferia, il pluralismo dei centri di potere, il federalismo fiscale: la depubblicizzazione, o forse stiamo assistendo ad una nuova pubblicizzazione delle privatizzazioni con il fine di impedire il decadimento dei poteri centrali.
In altri termini, la riforma del Titolo V Cost., avvenuta con la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, ha operato una vera rivoluzione sul modo di concepire i poteri dello Stato, e la delega per la riforma dell’organizzazione del Governo e della Presidenza del Consiglio dei Ministri, di cui alla legge delega 6 luglio 2002, n. 137 (per snellire la macchina burocratica centrale in un più ampio processo di semplificazione), né è stata una ulteriore conferma: si descrisse un nuovo corso sia amministrativo che di politica istituzionale.
L’obiettivo, in quei tempi, era quello di garantire al Paese, attraverso un esecutivo forte, quei compiti di coordinamento e di unitarietà d’azione che sono ormai comuni nelle forme di governo delle democrazie occidentali, ripristinando allo stesso tempo il valore delle “autonomie e del decentramento”, come dinamica territoriale primaria tipica degli organismi di base e di rappresentanza diretta, per un passaggio da sistemi di government a sistemi di governance, privilegiando i livelli di governo più vicini al cittadino, in grado di percepire e cogliere le istanze e le richieste dell’amministrato e del tessuto economico – imprenditoriale in cui opera.
Il principio di partecipazione, proiettato a qualificare la natura democratica di un ordinamento, rappresenta un carattere necessario dell’autonomia costituzionale attribuita in primis alle Regioni, valorizzando forme di partecipazione popolare interpretabili in modo estensivo, mediante copertura costituzionale.
Ora, andando oltre, gli organi e gli istituti di partecipazioni rispondono compiutamente a questi modelli sociali e giuridici perché sono meccanismi di coinvolgimento diretto della popolazione alle scelte definite dagli amministratori, perché mediano le esigenze pratiche con le determinazioni politiche per costituire un raccordo unanime di consenso e un continuo rapporto “efficace” di controllo tra questi due soggetti: il corpo elettorale e gli eletti.
La partecipazione e l’azione popolare potrà delinearsi, quindi, in una forma consolidata a sostegno dell’attività politica – legislativa – amministrativa di chi governa e potrà esprimersi in via obbligatoria o in via facoltativa, ad istanza o d’ufficio, ovvero in base alle forme che meglio valorizzino la partecipazione dei cittadini all’amministrazione dei beni comuni (la c.d. res publica), con un inevitabile inserimento organico nel processo decisionale per l’assunzione diretta di una corresponsabilità nelle scelte.
Si chiarisce, così facendo, che promuovere e favorire la partecipazione popolare costituisce un imperativo giuridico, oltre che etico, nel senso di valorizzare la democrazia, per tutta la pubblica amministrazione e gli organi istituzionali di rappresentanza, ad ogni livello di governo nella sua rappresentazione costituzionale: “la Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento” (ex art .5 Cost.)
Un istituto considerato espressione principale di democrazia diretta (o partecipata, distinguendosi dal meccanismo della democrazia rappresentativa indiretta) è il referendum (ma anche, le primarie e le elezione dirette dei capi degli esecutivi), e ai promotori compete attivare la sovranità popolare nell’esercizio di una potestà normativa diretta, evidenziando il nesso di rottura del tradizionale monopolio parlamentare della legge (propria della forma di governo classica parlamentare), integrando le fonti del diritto nella formazione dell’indirizzo politico di una società pluralista: un correttivo ai processi legislativi e uno strumento di partecipazione istituzionale popolare rispetto alla mediazione delle assemblee rappresentative e dei partiti: una sorta di soccorso al completamento della volontà elettiva.
L’espressione democratica si allunga, oltre che sull’aspetto prettamente formativo delle leggi e dei suoi correttivi, anche sotto l’aspetto spaziale dove le “Autonomie” costituiscono una parte essenziale dell’articolazione democratica dell’ordinamento unitario repubblicano, una mediazione territoriale dei diversi livelli di potere assembleare sovraordinato ma equidistante, in funzione di una riconosciuta autonomia (ex art. 114, della Cost.) in esecuzione dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza.
L’attribuzione di competenze dallo Stato alla periferia avviene secondo criteri di territorialità, sussidiarietà, adeguatezza, semplificazione, capacità finanziaria, sottoponendo l’attenzione al “particolare” secondo i livelli territoriali (di governo) interessati, in piena aderenza con il radicamento degli enti sotto ordinati sul territorio; fatte salve, ovviamente, le esigenze di carattere unitario che richiedono l’attribuzione a quei livelli di governo in grado di soddisfare maggiormente i bisogni di tutela generale della popolazione (c.d. sussidiarietà verticale).
Il giusto precipitato di questo processo valorizzerà i princìpi di sussidiarietà, di adeguatezza e di differenziazione nella allocazione delle funzioni fondamentali (ex art. 118 Cost.) in modo da assicurarne l’esercizio in sede locale con riferimento specifico alle caratteristiche dimensionali e strutturali, prevedendo strumenti che garantiscano il rispetto del principio di leale collaborazione tra i diversi livelli di governo, nello svolgimento delle funzioni fondamentali, che richiedono, per il loro esercizio, la partecipazione di più enti, individuando specifiche forme di consultazione e di raccordo tra Enti Locali, Regioni e Stato.
Il percorso di analisi segue una linea di prospettazioni che indicano nello Stato e nei suoi livelli ordinamentali, Regione, Provincie, Città Metropolitane e Comuni, soggetti che godono a livello costituzionale di pari dignità, in quanto rappresentano i diversi interessi che governano un territorio, partendo dalla base.
La rappresentanza dei cittadini viene affidata agli organi elettivi, il processo legislativo segue regole di matrice costituzionale proiettate a salvaguardare le condizioni del fine pubblico, sempre orientato a garantire il buon governo e le istanze dei governati, istanze che una volta affidate con il voto all’eletto, possono richiedere ulteriori approfondimenti.
La partecipazione al processo decisionale, la tanto decantata trasparenza, l’esigenza di istruire, informare, razionalizzare, costituiscono obiettivi comuni di governo a tutti i livelli di potere (dallo Stato ai Comuni, passando per Regioni, Province e Città Metropolitane), per rispondere compiutamente ai bisogni generali, in una dimensione di responsabilità politica che solo attraverso il voto può essere giudicata; diversamente vige la libertà di mandato e le regole della maggioranza che si forma in un determinato periodo (i cambi di “casacca” né costituiscono un esemplare significativo).
Da una parte, si invoca la democrazia e la partecipazione, dall’altra, si prospettano limiti alla consultazione popolare in nome di una indivisibilità dell’ordinamento, di principi di unità nazionale, di profili di solidarietà sociale, concetti forse non più in grado di garantire i nuovi assetti dell’ordine nazionale e sovranazionale, il mutato quadro dello sviluppo globalizzato, la pervasività delle nuove connessioni relazionali, dove la dimensione territoriale gioca la differenza valoriale tra essere competitivi o essere al seguito di altri.
In una società liquida, dove tutto si dematerializza, perdendo il significato di molti concetti giuridici ormai passati, appare suggestivo pretendere di garantire la partecipazione a tutti i livelli, con un eccesso di trasparenza in nome delle libertà civili per una democrazia partecipata, e allo stesso tempo invocare i limiti del referendum consultivo, dichiarare l’obsolescenza programmata del diritto di esprimere il proprio pensiero, senza considerare che la consultazione popolare esprime in via principale il concetto di rappresentanza diretta del popolo, e, quindi, massima espressione di democrazia, obbligando l’eletto ad un vincolo di mandato nel merito, negato dal nostro ordinamento ma costantemente lodato.
Il referendum consultivo e i suoi limiti dovrebbero essere rivisti per riaffermare il primato della polis (nel senso di governo del popolo), per ripristinare il giusto legame tra l’eletto e l’elettore, che sistematicamente deserta il voto non ritenendolo uno strumento efficace di rappresentanza (vedi, l’astensionismo o il ritenuto deficit di democrazia), quando il popolo è chiamato a deliberare significa che si interessa delle sorti dello Stato, sia pure per rivendicare la propria autonomia nell’ambito del modello costituzionale di unità e indivisibilità, recuperando spazi aggregativi di integrità.
Siamo forse alle porte di una nuova democrazia partecipativa o deliberativa, allargata dalle connessioni della rete, dagli immediati riscontri dei follower e dei like, dove il paradosso della globalizzazione richiede la localizzazione (la c.d. inclusione), e forse attraverso lo strumento referendario si recupera la credibilità della politica e dei politici, osteggiata da privilegi e visioni di parte, lontana dalla periferia e dai cittadini, non più in grado di rispondere ai bisogni vitali.
Un vuoto dalla realtà e un distacco cogente da quei bisogni manifestati da una cercata e ricercata autonomia per rilanciare il possibile a fronte della staticità degli apparati centrali, tipica di una visione autarchica della gestione delle potestà pubbliche (il c.d. governo dei burocrati): una concessione dall’alto, oltre il tempo.
Le spinte autonomistiche, il bisogno di contare di più in relazione alle risorse impiegate e versate, non è una questione di lontananza dai bisognosi, di isolamento dalle sperequazioni territoriali, dal confronto nord e sud, tali categorie sono frutto di una passata dimensione del vivere sociale, di una crisi di valori prima ancora di una crisi economica, si rivendica una modernità che richiede il suo riconoscimento deliberativo, un legame sempre più costante e forte tra territorio e suoi rappresentanti: l’autonomia non significa indifferenza ma rafforza la qualità e la solidarietà nel servire il bene comune, assieme a tutti i corpi istituzionali, ricalcando una rappresentatività che è appannaggio diretto della sovranità e dei suoi legami con il popolo.
Il referendum appare allora sempre più una rivendicazione di libertà, di democrazia partecipativa, di legittimazione territoriale, di espressione autentica di autonomia e identità, nei confini e limiti della proporzionalità e ragionevolezza dell’architettura costituzionale e di un regionalismo differenziato.
È difficile per molti comprendere le diversità esistenti tra le regioni a statuto speciale e le altre che non godono dei medesimi benefici, e pretendere ancora di garantire queste diversità una volta venute meno le condizioni e ragioni storiche che ne giustificavano il riconoscimento, e non ritenere ammissibile le pretese di diversità (alias autonomia) che attualmente sono presenti nel contesto nazionale e internazionale, invocando ragioni che si negano per queste e si ammettono per quelle.
Senza voler entrare nel merito della questione di fondo che è nota, ed è un fatto che può verificarsi senza incorrere in censure, si potrebbe pensare che il vincitore è il sognatore che non si è mai fermato, riportando la concordia del popolo, consentire un effettivo “dover essere” non solo di facciata, “coloro che si dispongono a reggere lo stato abbiano sempre presenti questi due precetti di Platone: primo salvaguardare il bene dei cittadini, di modo che, qualunque cosa facciano, quello soprattutto abbiano di mira, dimentichi del loro utile; poi curare tutto il corpo dello stato, per non trascurare le altri parti, mentre ne curano una. Infatti l’amministrazione dello stato, come la tutela privata, deve avere di mira l’utilità di quelli che sono stati affidati, non di quelli ai quali è stata affidata. Quelli che curano soltanto una parte dei cittadini, ed una parte ne trascurano, introducono nello stato un gravissimo malanno”.
(estratto, Democrazia partecipata e referendum consultivo: il caso Veneto, LexItalia.it, 11 ottobre 2017, n. 10)