Vanno fatte alcune considerazioni.
PRIMO PUNTO: L’Italia ha bisogno di nuovi saggi, di nuove leggi, di nuove autorità, ed è per questo che si moltiplicano le norme sulla semplificazione e sulla delegificazione; aumentando la trasparenza e l’accessibilità dei dati on line delle amministrazioni pubbliche si garantisce il controllo sociale e si diminuisce la burocrazia e la corruzione.
Si partoriscono nuove procedure, nuove adempimenti, nuovi obblighi e poi si pretenderebbe di eliminare i costi della pubblica amministrazione, i costi degli apparati amministrativi.
Hanno scoperto la separazione delle funzioni: ai politici gli atti di indirizzo e di programmazione, ai tecnici l’attività gestionale, poi… se i tecnici non seguono… (vedi) i politici hanno importato (pure) lo spoils system.
La dirigenza di “fiducia” o “a chiamata”, sul mito della libertà di mandato (con l’elezione diretta del sindaco), viene scelta quale dirigenza di staff e/o uffici alle dirette dipendenze degli organi (elettivi) di vertice: un concetto di democrazia alquanto singolare che non coincide con i principi costituzionali “Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge” (art. 97 Cost.).
La scelta avviene direttamente o previa selezione (avviso pubblico): di fatto la nomina è prodotta su indicazione diretta dell’eletto, ovviamente in base alle valutazione del c.d. curriculum, anzi sul merito e la preparazione (su questi ultimi profili qualche dubbio permane).
SECONDO PUNTO: (estratto: “Prospettive e tendenze del rapporto tra Politica e Amministrazione nell’Ordinamento Italiano”, in Rivista della Corte dei Conti, 1998, n.2)
In tale rapporto: Governo (come espressione del ceto politico) – dirigenza (come insieme dell’apparato amministrativo) vengono distinti nella volontà di riformare lo Stato nel tentativo di conciliare l’imparzialità dell’agire “politico – amministrativo” (di ispirazione costituzionale) a canoni di efficienza – efficacia, nella difficile misurabilità di un’azione (quella dell’amministrazione) ancora impantanata in procedure formalistiche prive di criteri di confronto con i risultati (pur in presenza di una normativa tesa alla razionalità dell’agire amministrativo e al legame costi e benefici), e di quello di eguaglianza sociale, nella democratizzazione e nel pluralismo procedimentale e partecipativo (con la trasparenza e il responsabile del procedimento per ogni atto amministrativo) della società civile che richiede dalla politica risposte e servizi per un’amministrazione più conforme alla mutata situazione del Paese.
Nella separazione dei ruoli uno politico – di indirizzo – l’altro amministrativo – di gestione si cerca di unire la stabilità del rapporto fondato, da una parte, su responsabilità politica censurabile in “sede elettorale e di gestione del consenso” per l’elezione diretta dell’organo di vertice dell’apparato amministrativo (questo titolato alla determinazione degli obiettivi, dei programmi e alla verifica del risultato), dall’altra parte, sulla responsabilità dirigenziale esecutrice dei programmi e artefice degli strumenti per il raggiungimento dei risultati censurabile nel potere di nomina, conferma e revoca insito nella scelta fiduciaria della dirigenza.
In queste condizioni, sembra tramontare l’amministrazione tradizionale, quello dello Stato di diritto e del principio di legalità, sembra, ormai, storicamente chiamata a celebrare la sua lenta consumazione in una politica di sostegno alle mediazioni quotidiane, ai principi di decentramento amministrativo che pongono, con l’investitura diretta dal popolo, l’eletto in una condizione di essere al centro di un sistema che male tollera le ingerenze “autoritarie e gerarchiche” dello Stato centrista auspicando una riforma dello stesso (Stato) su principi di autonomia e autorganizzazione che passa e inizia necessariamente con la riforma dell’Amministrazione pubblica.
L’assetto istituzionale trova in questo rapporto le diverse relazione dell’agire politico – amministrativo e la forma che esso assume delimita l’orientamento di un sistema normativo che riflette costantemente la supremazia di uno dei due soggetti (o il potere politico o la burocrazia).
Nell’ordinamento giuridico attuale (era il 1998 ndr) il Governo ha una duplice posizione, da una parte, è ente esponenziale della pubblica amministrazione la rappresenta in quell’ambito ed è per questo che ne sopporta la responsabilità; dall’altro, è capo dell’amministrazione e organo che determina “l’indirizzo generale dell’azione amministrativa” curandone l’unità e la coerenza.
Il ministro (a livello centrale), il sindaco (a livello locale) sono la “cerniera” di questo sistema di unità – distinzione, insieme capo e vertice dell’amministrazione e membro del governo – giunta.
Se questo è lo schema e queste sono le relazioni, l’idea che se ne trae “è della stretta continuità fra attività politica e attività amministrativa e dall’esigenza di mantenere quest’ultima nell’alveolo degli indirizzi politici – esigenza che pare propria degli Stati democratici nei quali si presenta la necessità di mantenere la coerenza dell’azione amministrativa rispetto ai principi e ai fini che la comunità si è data” ( art. 95 e 97 cost ) “e della cui osservanza gli organi rappresentativi debbono essere garanti – bisogna, anche viceversa, registrare, una tendenza diretta da una parte, a riconoscere, dall’altra, a secondare la separazione fra governo e amministrazione. Alla base di ciò, vi è il riconoscimento della forza e dell’autonomia effettive dell’amministrazione rispetto al potere politico, ma vi è soprattutto l’intento di garantire la legalità e l’imparzialità dell’attività amministrativa difendendola dalle influenze della ( cattiva ) politica” (NIGRO, Lineamenti generali, in Manuale di diritto pubblico a cura di AMATO e BARBERA, Bologna, 1994, p.700).
Vediamo, a questo punto di trarre alcune conclusioni e di ricercare, anche, le tendenze e le prospettive di questo rapporto il cui equilibrio disegna le fondamenta dello Stato e delle aspettative generali della collettività sempre più attenta alle relazioni tra politica e amministrazione nella consapevolezza che la soddisfazione dei bisogni primari passi anche per questa via ed esprima “interessi dell’intera collettività, e quindi, in grado di porsi come un potere in qualche modo sovraordinato alla pubblica amministrazione” (CASSESE, Il sistema amministrativo italiano, Bologna, 1983, p.79).
La tendenza è quella che, dopo aver riconosciuto una strumentalità della funzione organizzatrice della pubblica amministrazione rispetto a quella di indirizzo politico, ha ritenuto di potere individuare l’esistenza di una vera e propria riserva di amministrazione, intesa come riserva d’indirizzo e di potere di organizzare in capo al potere esecutivo (nel senso di apparato) in merito alla quale non sarebbe consentito al legislatore di intervenire.
Va dunque rilevato che non sembra possibile, anche solo su un piano strettamente teorico, affermare la necessità di una totale scissione tra momento politico e momento burocratico e questa inscindibilità tra momento politico e burocratico si riverbera sulle problematiche inerenti la riserva di legge (art. 97 Cost.) in merito all’organizzazione degli uffici a favore del Parlamento e non dell’Esecutivo.
Tuttavia, la tendenza rimane quella della materiale impossibilità di disciplinare nel dettaglio le norme che regolano l’organizzazione degli uffici e consentono alle “potestà secondarie” di riservarsi spazi di operatività, appunto, “di riserva”; negli enti minori questo comporta una capacità di autorganizzazione che si manifesta nell’autonomia, autonomia dal centro, eliminazione o riduzione dei controlli, semplificazione amministrativa e, quindi, tramonto del sistema gerarchico e autoritario per un sistema pluralistico e di libertà.
Non deve sorprendere quindi che l’Amministrazione viene intesa, in una definizione giuridico – sociologica rientrante in tale contesto, come quell’attività globalmente rilevante diretta alla realizzazione di compiti ed alla soddisfazione di bisogni, organizzata in strutture, procedimenti e personale imparziali, paritari, controllabili funzionalizzato agli obiettivi politici programmati.
Una siffatta affermazione ingenera il convincimento che la politica ha come finalità il condizionamento di tali processi e, di conseguenza, la partecipazione alle definizioni operative dei processi amministrativi privilegiando, appunto, le diverse forme e ideologie politiche che sono alla base di ogni ordinamento; ciò implica che l’attività amministrativa, ben lungi dall’essere meramente esecutiva di determinazioni primarie legislative, come in apparenza si vorrebbe far credere, svolge sempre più una funzione di completamento e di integrazione di scelte di natura politica.
In altri termini se, nel nostro Ordinamento Giuridico, è la Legge a dare la definizione d’interesse pubblico (con una serie articolata di criteri e parametri costituzionali) nei vari campi in cui essa opera e se detto interesse costituisce il fine razionale dell’agire amministrativo (art. 97 e 98 Cost.) spetterà all’amministrazione procedente definire come tale i canoni di riferimento in base all’imparzialità, all’efficienza e alla legalità (in ragione della premessa appena fatta e che si rapporta all’agire amministrativo soprattutto nella c.d. riserva di amministrazione).
In dipendenza di ciò, il rapporto che si instaura con la Politica non può che definire le linee generali e i collegamenti con l’agire amministrativo nonché con i singoli momenti di attuazione (delle leggi); l’Amministrazione opera, pertanto, in base a canoni generali i cui limiti e oggetto d’intervento sono stabiliti dalla legge (principio di legalità) e all’interno di questa Legge opera in base alle regole da essa stessa stabilite (poteri di tipo regolamentare di fonte secondaria): “l’attività degli apparati amministrativi è, quindi, regolata in maniera diversa dall’attività dei privati. Mentre questi sono liberi di scegliere le forme e i modi che trovano più convenienti, la pubblica amministrazione deve operare in forme e modi che sono quelli espressamente indicati dalla legge, alla quale, pertanto, è legata in ogni momento del suo agire… In passato, peraltro, il principio di legalità era considerato come una garanzia dei cittadini contro l’arbitrio dei pubblici poteri” (CASSESE Sabino, “ Il sistema amministrativo italiano, Bologna, 1983, p.79).
Ci troviamo di fronte a un Legislatore (potere politico) che costruisce l’involucro dell’ordinamento giuridico stabilendo i diversi livelli di operatività (art. 5 Cost.) e, quindi, le diverse forme di organizzazione ma in quest’ultime divide, ancora, il livello di operatività attraverso le proprie strutture.
La tendenza attuale del potere politico all’interno e rispetto all’amministrazione si dipana nella dotazione di una “forza” finalizzato a limitare i margini di un’attività, comunque, vincolata (e riassunto nella c.d. discrezionalità ) coprendo ogni spazio di libera iniziativa conglobando nelle direttive, nei programmi, negli obiettivi ogni margine di iniziativa.
Gli obiettivi strategici del potere (politico) trovano i propri confini con la limitazione del rapporto discrezionalità, come linea di tendenza organizzativa, e il tramonto del binomio “ autorità – libertà”.
Non vi è, infatti, più un unico concetto di interesse pubblico, basato su quelle norme basilari a cui si ispirava tanta giurisprudenza e dottrina nello stabilire il concetto “di imparzialità e buon andamento” ma con l’avvento del concetto Stato Federale anche l’unità dello stesso Stato tende a presentare segni di debolezza lasciando spazio alla confusione dei valori perseguiti con l’interesse pubblico sotteso.
Gli obiettivi di questo rapporto, o meglio di questa tendenza, possono essere assimilati a tre filoni: a) la semplificazione e l’economicità dell’agire amministrativo; b) la sostanziale equiparazione tra l’amministrazione per provvedimenti e l’agire per accordi, o comunque con forme collaborative integrate; c) la tendenza al rafforzamento del quadro di comando politico – amministrativo (vedi, appunto, poteri di nomina e revoca della dirigenza).
Il primo punto viene attuato con una riconcentrazione delle potestà decisorie e d’indirizzo esclusivamente presso i soggetti amministrativi competenti a esprimere le violazioni nel caso concreto nonché su altre e diverse forme di controllo sui risultati raggiunti (controllo di gestione, eliminazione del parere di legittimità, giurisdizione comune per il pubblico dipendente).
Si cerca di massimizzare la capacità d’indirizzo iniziale con apposite direttive o con programmi dettagliati accertando, in sede finale e al termine del periodo indicato, il risultato raggiunto, anche ai fini di valutare l’operato del dirigente preposto e controllare l’azione amministrativa non solo sul piano formale ma su quello sostanziale dell’obiettivo raggiunto a cui comparare le valutazioni di produttività e di merito dell’apparato burocratico.
Questo implica una serie di controlli devoluti solamente nella fase finale eliminando tutta una serie di procedure che appesantiscono il procedimento amministrativo; vengono, dunque, eliminati i pareri di legittimità iniziali, vengono enfatizzati i sistemi di partecipazione al procedimento e le forme di comunicazione al fine di sopprimere una serie di ostacoli infraprocedurali e al contempo garantendo l’intervento dei terzi e di tutti i soggetti interessati dando, di conseguenza, una risposta alle continue richieste della collettività per una maggiore trasparenza e comprensibilità all’agire amministrativo.
Che sia questa la prospettiva da cui si è posto il legislatore e del resto rilevabile dal contesto della legge per definire il rapporto politica e amministrazione privilegiando, comunque, il primo a scapito della seconda nel rispetto e nel sostegno di quanto affermato a livello costituzionale (art. 95 Cost.) che prevede in capo al Presidente del Consiglio la direzione della “politica generale del Governo” e “mantiene l’unità di indirizzo politico e amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri”.
Sembra proprio, al di là dei richiami costituzionali, che l’attuale equilibrio tra politica e amministrazione propenda in tal senso: nella supremazia della politica rispetto all’amministrazione, apparato servente e non ancora classe dirigente autonoma ed indipendente al servizio esclusivo della Nazione (art. 97 Cost.).
Altro aspetto procedimentale, collegato in via derivata a questo rapporto, è il controllo di gestione finalizzato al riscontro degli obiettivi e dei risultati. Tale controllo mira alla massimizzazione delle risorse, alla riduzione dei tempi morti, alla responsabilizzazione della struttura operativa e alla identificazione dei centri di spesa e di garanzia.
Anche questo è un altro riflesso del rapporto de quo in cui la politica perviene ad una risposta ai propri disegni e aspettative ma soprattutto alle istanze della società civile che esige servizi e non tollera tempi morti; in altri termini è la fase della verifica dell’apparato organizzativo, del controllo sull’operato della dirigenza, al riscontro in termini pratici della efficacia dei propri programmi e una risposta chiara alla collettività che in essa si rappresenta e riconosce.
Un secondo aspetto prospettico e una tendenza normativamente consolidata ( e che ha cambiato l’ambito di operare dell’amministrazione da un diritto pubblico – amministrativo a un diritto comune – civile) è quello dell’Amministrazione per accordi, per convenzioni, per contratto; l’Amministrazione regolamenta il proprio comportamento attraverso lo strumento pattizio, il quale serve ad accelerare l’agire amministrativo e a provvedere con maggiore stabilità al raggiungimento degli obiettivi, necessario alla classe politica per eliminare ogni forma di ingerenza amministrativa per porsi direttamente, con il cittadino, in termini paritari eliminando ogni forma di pedante e ostruzionistica burocrazia.
È fin troppo evidente che il regime pubblicistico, tipico di quei poteri autoritativi e gerarchizzati, lascia spazio al mondo del “diritto civile”, del mercato privato integrando in questo modo lo scelte sia dell’amministrazione pubblica (come forza “economica” trainante) che del mercato; finalizzate entrambe (soggetto pubblico e soggetto privato) al raggiungimento del benessere generale, individuando nell’amministrazione (“sempre più privatizzata”) un erogatore di servizi in nome della libera concorrenza e del pluralismo dei centri di potere.
Il Legislatore (la politica) risponde a tali eventi e necessità con un’opportuna deligificazione e privatizzando il pubblico impiego.
L’amministrazione può, comunque, conciliare queste esigenze con la programmazione, la pianificazione, la diminuzione dei costi amministrativi e, si comprende, in tal senso che parte della riforma punta alla semplificazione, alla diminuzione dei controlli, all’accelerazione dei procedimenti, alla certezza dei tempi con i quali una “pratica” viene evasa, alla conferenza dei servizi in cui s’incontrano i metodi di lavoro di natura aziendale e di staff, all’aumento della preparazione – aggiornamento del personale nonché alla ricerca di nuove professionalità da inserire nelle strutture; una risposta, questa, del potere politico per una struttura burocratica più attiva, efficiente, qualificata in grado di rispondere con prontezza alle istanze esterne , della società, e interne ,dell’apparato.
L’immutabilità delle procedure lascia spazio alla fantasia delle idee, all’incontro di sintesi tra le diverse posizioni soggettive, al “pratico e concreto” divenire della norma che deve rispondere a criteri di razionalità, produttività ed economicità più che a parametri di legittimità formale.
Da queste prospettive è consentito dare ingresso alla tesi che il potere politico, in ogni ambito, percorre strategie di occupazione generale, di investitura e legittimazione diretta, di decisionismo esasperato a scapito di una organizzazione amministrativa frastagliata e non unitaria, di nomina verticistica fiduciaria e di rappresentanza politica specchio temporale della maggioranza che governa.
Viene, quindi da dire, che questa separazione tra politica e amministrazione, tra una funzione di indirizzo (programmazione e controllo) e una funzione di esecuzione (gestione tecnica e raggiungimento dei risultati) sia in realtà una vana illusione; si è visto che la riforma si adopera per privilegiare la netta separazione dei ruoli e delle competenze propri in virtù di una scelta “ideologica” per evitare l’ingerenza delle pressioni politiche (partitiche) sull’agire amministrativo, per il trionfo della trasparenza e della legalità, per la realizzazione di quei principi di valore e rango costituzionale.
Alla luce delle considerazione fatte, e non ultima della legge 127/97, questo obiettivo sembra non essere stato raggiunto, sembra di assistere ad un come back, ad un ritorno indietro, ad un’inversione di tendenza rispetto alla riforma, dato che si privilegia il politico sul tecnico; l’amministrazione si prospetta sempre più asservita alle volontà politiche che all’imparzialità e alla realizzazione del bene comune al servizio della Nazione.
Se persiste il potere di nomina, di avocazione, di sostituzione come può considerarsi imparziale una scelta amministrativa o essere basata su canoni di legalità se poi alla fine si incorre nel rischio di essere censurata non sul piano della legittimità e del diritto ma su quello politico dell’interesse di parte e della gestione del consenso; e il raggiungimento dei risultati può essere perseguito in piena autonomia e in assenza di pressioni e interferenze esterne che guidano l’agire amministrativo?
La possibilità di procedere alla nomina fiduciaria della dirigenza che introduce un meccanismo di spoil system (si veda, per esempio, la nomina del segretario o del direttore generale del Comune), l’introduzione della deregulation normativa in materia di pubblico impiego non può che incidere nella libertà e nell’imparzialità dell’agire amministrativo e, pertanto non può parlasi di separazione di ruoli né di distinzione di competenza – tra politica e amministrazione – se non esiste l’indipendenza dell’una verso sull’altra, se non esiste quanto meno una “riserva di amministrazione”: un’autonomia di decisione (nella scelta delle metodologie, degli strumenti e dei mezzi per operare).
Bisogna, quindi, vedere il rapporto in prospettiva, affermare, per non violare i dettami costituzionali, che il principio di distinzione è solo tendenziale e non assoluto, che il principio di distinzione, e non di separazione, comporta l’attribuzione di compiti e ruoli differenti, ma non esclude affatto, anzi implica, la collaborazione fra politica e amministrazione entrambe proiettate ad obiettivo comune, l’una (la politica) ad individuare il fine l’altra (l’amministrazione) a partecipare alla formulazione di questo fine (vedi la previsione della partecipazione della dirigenza con proposte per la formazione degli indirizzi e degli obiettivi).
La soluzione, più convincente, in proposito, sembra quella che costruisce il rapporto di fiducia come un rapporto relativo non alla rappresentatività, ma alla idoneità allo svolgimento dei compiti previsti. La sussistenza del rapporto di fiducia sarebbe, quindi, determinante al momento della scelta (il potere di nomina) del dirigente: una volta nominato, però, questi entra a far parte di un autonomo sistema normativo, che prescinde dall’originaria scelta fiduciaria.
Affermare il principio di distinzione significa, inoltre, sostituire ai rapporti di gerarchia un rapporto di direzione, in quanto non c’è più comprensività o fungibilità della competenza dell’organo politico rispetto a quella dei dirigenti (anche se questo trova ancora difficile soluzione visti i poteri extra ordinem del ministro non esplicitamente abrogati).
A questo potrebbe ben essere associato un concetto di imparzialità e di buon andamento dell’amministrazione non più basato su parametri classici (artt. 95, 97 e 98 Cost.) e del formalismo esasperato ma su parametri di efficienza e razionalità di derivazione aziendale in risposta al crescente rapporto tra società civile e pluralismo politico preludio, forse, necessario per una riforma non solo dell’amministrazione ma della stessa forma e organizzazione dello Stato.
L’intervento sopra riportato è risalente nel tempo, era il 1998.
TERZO PUNTO: da quel lontano 1998 arriviamo alla “Relazione Finale del Gruppo di Lavoro sulle riforme istituzionali, istituito il 30 marzo 2013 dal Presidente della Repubblica, composto da Mario Mauro, Valerio Onida, Gaetano Quagliariello, Luciano Violante del 12 aprile 2013.
Il Gruppo di lavoro si legge “ha concepito se stesso come organismo non formalizzato e di breve durata, che non deve interferire né con l’attività del Parlamento, né con le decisioni che spettano alle forze politiche. Si é posto perciò l’obbiettivo di formulare alcune brevi proposte programmatiche che possano divenire, con diverse modalità, terreno di condivisione tra le forze politiche. Il Gruppo di lavoro ha raggiunto un elevato grado di condivisione sulle proposte raccolte nel rapporto, salvo pochi casi, specificamente segnalati, nei quali le differenti opinioni non hanno trovato un punto di mediazione”.
Leggiamo che “l’Italia ha bisogno di riforme in grado di ravvivare la partecipazione democratica, di assicurare efficienza e stabilità al sistema politico e di rafforzare l’etica pubblica: principi e valori che costituiscono il tessuto connettivo di ogni democrazia moderna e ingredienti del suo successo nella competizione globale”.
Leggiamo: “Principio di legalità. A causa dell’eccesso di produzione normativa, della complessità dei fenomeni sociali e della qualità non sempre adeguata dei testi legislativi, più spesso destinati alla comunicazione politica di quanto non lo siano alla disciplina dei rapporti giuridici, la legge ha in parte smarrito la sua potenza simbolica e la capacità di regolare efficacemente i comportamenti dei cittadini. Naturalmente non si può prescindere dalla legge, anche perché la soggezione dei magistrati ad essa rappresenta fattore di congiunzione tra un ordine giudiziario dotato di autonomia e di indipendenza e il circuito costituzionale fondato sulla sovranità del popolo. Ma la legge, non sempre si rivela idonea a garantire, da sola, il principio di legalità nella sua dimensione di possibilità di prevedere le conseguenze giuridiche dei comportamenti di ciascuno. Il venir meno di quei fattori di certezza e di prevedibilità che erano tradizionalmente propri della legge e della interpretazione giurisprudenziale ha progressivamente ampliato i margini dell’intervento interpretativo del magistrato. Tale processo è difficilmente arrestabile, anche perché riflette una tendenza, propria non solo dell’Italia, di avvicinamento generalizzato ai sistemi di common law dove tuttavia altri sono i contrappesi, i meccanismi di responsabilizzazione e le fonti dalle quali l’ordine giudiziario trae legittimazione. L’autonomia e l’indipendenza della magistratura, la stabilità della legislazione e la prevedibilità delle conseguenze giuridiche dei comportamenti di ciascuno sono tutti diritti fondamentali nello Stato democratico. Ma tali diritti possono essere messi a repentaglio dalla mutevolezza delle interpretazioni e perciò si propone di rafforzare – mediante interventi regolatori – l’autorità dei precedenti provenienti dalle giurisdizioni superiori e gli obblighi di motivazione in caso di scostamento da interpretazioni consolidate. Altrettanto necessaria è la crescita del senso di responsabilità del magistrato per le conseguenze delle proprie decisioni nella comunità; ma si tratta di questioni che investono prevalentemente principi di natura deontologica, difficili da tradurre in regole disciplinari, dipendenti strettamente dalla consapevolezza dei doveri di responsabilità professionale”.
Per gli altri aspetti si rinvia alla relazione.
QUARTO PUNTO: Abbiamo scoperto l’acqua calda.