La sez. III Civ. della Cassazione, con la sentenza 28 agosto 2019 n. 21757, interviene per definire la responsabilità dei danni provocati dalla fauna selvatica che ricade in capo all’Autorità Amministrativa a cui è affidata la vigilanza.
Va premesso, in linea generale, che qualora si intenda gravare di responsabilità un soggetto (deputato alla cura e vigilanza) per aver omesso di adottare misure idonee ad evitare che la fauna selvatica arrecasse danni a terzi, è indispensabile allegare precisi profili di colpa, dimostrando la responsabilità afferente al soggetto in termini di custodia (rectius vigilanza o controllo).
Tale allegazione (le prove), in sede di giudizio, sono necessarie, ai sensi dell’art. 2043 c.c., essendo il danneggiato dalla fauna selvatica gravato dall’onere di provare non solo il danno ma anche il concreto comportamento colposo ascrivibile al soggetto tenuto, ex lege (al controllo e) alla vigilanza della fauna[1].
In effetti, in tema di responsabilità extracontrattuale, il danno cagionato dalla fauna selvatica non è risarcibile in base alla presunzione stabilita dall’art. 2052 cod. civ., inapplicabile per la natura stessa degli animali selvatici, ma soltanto alla stregua dei principi generali sanciti dall’art. 2043 cod. civ., anche in tema di onere della prova, e perciò richiede l’individuazione di un concreto comportamento colposo ascrivibile all’Ente pubblico[2].
Nei termini sopra descritti, è stato ritenuto responsabile il comportamento di un Ente pubblico che, in una zona densamente popolata di animali selvatici, non aveva installato alcun avvertimento per segnalare il pericolo, inducendo – così facendo – l’utente della strada a prestare la massima attenzione, onde procedere con la necessaria prudenza[3], anche attraverso la dimostrazione di aver messo in atto ogni possibile cautela al fine di evitare il danno[4].
Il fatto, oggetto di pronunciamento, vede la citazione di una Regione per «sentirla condannare al risarcimento dei danni causati alla produzione olivicola svolta su terreni di sua proprietà a causa dell’ingresso di un branco di cinghiali».
In Tribunale, in primo grado, a seguito di CTU quantificava il danno e la conseguente responsabilità della Regione, ai sensi dell’art. 1 della Legge n. 157/1992, «Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio», titolare del potere di pianificazione e controllo della fauna, sia con metodi ecologici sia attraverso piani di abbattimento, mentre alle Provincie viene affidato il solo compito di dare esecuzione alle decisioni regionali.
Invero, l’art. 19 (Controllo della fauna selvatica), della citata legge, affida alle Regioni compiti attinenti alla vigilanza, alla possibilità di vietare o ridurre per periodi prestabiliti la caccia a determinate specie di fauna selvatica, nonché provvedere al controllo selettivo delle specie di fauna selvatica anche nelle zone vietate alla caccia (con piani di abbattimento, con l’ausilio delle Province).
In appello (da parte della Regione che veniva accolto), veniva definito che alla Regione spetta il compito di stabilire le norme relative alla gestione e alla tutela di tutte le specie di fauna selvatica, alla regolamentazione, programmazione e coordinamento, mentre alle Province spettano i compiti attuativi, le funzioni amministrative gestionali in materia di caccia e di protezione della fauna, ivi comprese la vigilanza, per competenza propria, in virtù dell’autonomia ad esse attribuite dalla legge statale e non per delega delle Regioni.
Più puntualmente la Corte d’Appello ha affermato che «in base ai principi generali in tema di responsabilità civile, il responsabile dei danni va individuato nell’ente a cui siano concretamente affidati, con adeguato margine di autonomia i poteri di gestione e controllo della fauna e che sia meglio in grado di prevedere, prevenire ed evitare gli eventi dannosi del genere di quello del cui risarcimento si tratta».
Dunque, il soggetto che normativamente è tenuto concretamente alla vigilanza risponde dei danni cagionati dalla fauna selvatica, se non ha posto in essere idonee misure per prevenire ed evitare i rischi verso terzi, in tema di responsabilità civile, ovvero gli eventi dannosi (come quello oggetto di giudizio).
Ciò posto, la Corte di Cassazione rileva che il criterio di imputazione della responsabilità sia posto al livello di governo al quale la legge delega le funzioni amministrative in tema di fauna selvatica e che, nel caso di specie, un’espressa norma della Legge regionale assegna alla responsabilità della Provincia, senza escludere che la Regione, per suo conto, debba rispondere delle eventuali omissioni sul piano normativo e regolamentare.
In definitiva, dall’analisi della disciplina di riferimento, viene definita la responsabilità della Provincia sulla base delle seguenti considerazioni:
- attribuzione di poteri di gestione e di controllo del territorio e della fauna di vigilanza in relazione alla vicinanza al territorio (criterio di prossimità);
- attribuzione di un adeguato margine di autonomia e facoltà decisionali per prevenire ed evitare gli eventi dannosi (quale quello di specie).
La Corte di Cassazione, sez. III Civ., con la sentenza 28 agosto 2019, n. 21757, riconferma un orientamento già consolidato nell’attribuire la responsabilità in materia di risarcimento dei danni della fauna selvatica alla Provincia; soggetto preposto dalla disciplina all’adozione delle misure concrete per assicurare la prevenzione dei rischi di eventi dannosi da parte della fauna selvatica, imponendo alla stessa l’adozione di misure appropriate sulla base delle indicazioni regionali.
Stesse considerazioni e stessi criteri di imputazione, si possono mutuare in caso di responsabilità civile per l’aggressione di un cane randagio ad un soggetto (motociclista), ove si consideri che l’Amministrazione locale, in solido con la ASL, è l’ente, ai sensi della Legge quadro 14 agosto 1991, n. 281 e delle leggi regionali in tema di animali di affezione e prevenzione del randagismo, tenuto, in correlazione con gli altri soggetti indicati dalla legge, al rispetto del dovere di prevenzione e controllo del randagismo sul territorio di competenza[5].
Si può, pertanto, affermare che in base al principio del neminem laedere la P.A. è responsabile dei danni riconducibili all’omissione dei comportamenti dovuti, i quali costituiscono il limite esterno alla sua attività discrezionale e integrano la norma primaria del neminem laedere di cui all’art. 2043 c.c.[6], avendo dimostrato l’omissione delle cautele dovute nel limitare i rischi di eventi dannosi, nelle loro diverse conformazioni (peraltro indicate da specifiche discipline regionali).
Ne consegue che il modello di condotta cui la P.A. è tenuta postula l’osservanza di un comportamento informato a diligenza particolarmente qualificata, specificamente in relazione all’impiego delle misure e degli accorgimenti idonei ai fini del relativo assolvimento, essendo essa tenuta ad evitare o ridurre i rischi connessi all’attività di attuazione della funzione attribuitale di cura, controllo e vigilanza della fauna selvatica[7].
[1] Cass. Civ., sez. III, 25 novembre 2005, n. 24895.
[2] Cass. Civ., sez. III, ordinanza 21 novembre 2017, n. 27543.
[3] Cass. Civ., sez. III, 28 marzo 2006, n. 7080 e sez. I, 24 aprile 2014, n. 9276.
[4] Cass. Civ., sez. III, 21 novembre 2008, n. 27673.
[5] Cass. Civ., sez. III, 12 febbraio 2015, n. 2741.
[6] Cfr. Cass. Civ., sez. III, 27 aprile 2011, n. 9404.
[7] Condotta che, ove tardiva, carente o comunque inidonea, viene a provocare o a non impedire la lesione proprio di quei diritti ed interessi la cui tutela è rimessa al corretto e tempestivo esercizio dei poteri alla P.A. attribuiti per l’assolvimento della funzione, Cass. Civ., sez. V, 25 febbraio 2009, n. 4587 e Sez. Un., 27 luglio 1998, n. 7339.