La massima
La sez. I del Tribunale di Vicenza, con ordinanza R.G. 2020/6071 del 6 dicembre 2021, rigetta (per inammissibilità) la richiesta di restituzione dell’indennità di carica erogata ad un’intera giunta comunale[1], non potendo il giudice disapplicare l’atto amministrativo di determinazione dei criteri di erogazione (provvedimento risalente all’anno 2004), pena l’invasione (interferenza) in un’attività discrezionale (sul massimo o minimo del valore) a cui è inibito l’esercizio del potere giudicante (non può sindacarne il merito, sostituendosi)[2].
La disputa
La questione verteva (a seguito di un controllo contabile) sulla ripetizione di un indebito di somme percepite (periodo dal 2009 – 2019) a titolo di indennità di funzione, ovvero, in subordine, di arricchimento senza causa (ex art. 2041 c.c.), da parte dei componenti dell’organo giuntale; compensi liquidati sulla base di un’errata determinazione (in eccedenza) del quantum (in violazione, si eccepiva, con le disposizioni di legge, ai sensi dell’art. 82 del d.lgs. n. 267/2000, con riferimento all’allegato A) dell’art. 1 del D.M. n. 199 del 4 aprile 2000 e dell’art. 1, comma 54, della legge n. 266/2005, Legge finanziaria 2006): l’Amministrazione ricorrente chiedeva la disapplicazione della deliberazione di giunta comunale che, in violazione di legge, aveva determinato l’importo dell’indennità di carica[3].
Pare giusto riferire che la deliberazione cit. era stata adottata sulla base delle previsioni normative di cui all’articolo 82, comma 11, del TUEL vigente ratione temporis, ove si disponeva che «le indennità di funzione e i gettoni di presenza, determinati ai sensi del comma 8, possono essere incrementati o diminuiti con delibera di giunta e di consiglio per i rispettivi componenti. Nel caso di incremento la spesa complessiva risultante non deve superare una quota predeterminata dello stanziamento di bilancio per le spese correnti, fissata in rapporto alla dimensione demografica degli enti, dal decreto di cui al comma 8. Sona esclusi dalla possibilità di incremento gli enti locali in condizioni di dissesto finanziario».
In applicazione della deliberazione, il Responsabile dell’Ufficio Ragioneria erogava ai resistenti le indennità di funzione, indicate nel bilancio preventivo approvato ogni anno dal Consiglio Comunale e mai fatte oggetto di rilievi da parte del Segretario Comunale e del Collegio dei Revisori per il periodo considerato.
La parte resistente contestava:
- l’insussistenza dell’asserito indebito in relazione alla legittimità della delibera giuntale, rilevando che le liquidazioni avvenivano correttamente, soprattutto a seguito dell’emanazione dell’art. 1, comma 552, della legge n. 160/2019, dove erano stati chiariti gli effetti delle maggiorazioni rispetto agli importi fissati dal DM. n. 119/2000, i cui incrementi fossero stati deliberati prima delle modifiche intervenute tra il 2007 ed il 2008 al comma 11 dell’art. 82 del TUEL («le disposizioni di cui all’articolo 2, comma 25, lettera d), della legge 24 dicembre 2007, n. 244, e all’articolo 76, comma 3, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, sono da intendersi riferite al divieto di applicare incrementi ulteriori rispetto all’ammontare dei gettoni di presenza e delle indennità spettanti agli amministratori locali e già in godimento alla data di entrata in vigore delle suddette disposizioni, fermi restando gli incrementi qualora precedentemente determinati secondo le disposizioni vigenti fino a tale data»);
- l’inammissibilità della richiesta di disapplicazione della delibera avente ad oggetto «Determinazione indennità Amministratori», in quanto invocata dalla stessa P.A. in un giudizio in cui la medesima è parte e potendo ii giudice ordinario disapplicare l’atto amministrativo solo quando la valutazione della legittimità del medesimo debba avvenire in via incidentale e non assuma rilievo come causa della lesione del diritto del privato ma come mero antecedente (in termini diversi, viene precluso l’intervento del giudice quando la stessa delibera costituisca il fondamento del diritto dedotto in giudizio, trattandosi in questo caso di pregiudiziale in senso logico, assoggettata ad accertamento con efficacia di giudicato in relazione al quale il giudice ordinario sindacherebbe il potere amministrativo in via principale, sostituendosi all’Amministrazione, con invasione di una valutazione di merito).
La disapplicazione del provvedimento
La questione viene risolta non tanto sul merito della determinazione, quanto sulla impossibilità da parte del Tribunale di disapplicare il provvedimento di determinazione dell’indennità: solo disapplicando il predetto atto amministrativo, che è la causa e giustificazione dei pagamenti eseguiti, potrebbe – in astratto – configurarsi una condictio indebiti ovvero un arricchimento senza causa in caso agli amministratori (parte resistente).
Il giudice motiva l’inammissibilità e infondatezza della richiesta di disapplicazione del provvedimento con le seguenti motivazioni:
- l’art. 4 della legge n. 2248/1865, Legge sul contenzioso amministrativo (All. E), prevede che la disapplicazione di un atto amministrativo e possibile «quando la contestazione cade sopra un diritto che si pretende leso da un alto dell’autorità amministrativa»;
- il potere di disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo da parte del giudice ordinario non può essere esercitato nei giudizi in cui sia parte la P.A., ma unicamente nei giudizi tra privati[4], esprimendo non un potere generalizzato di disapplicazione degli atti amministrativi per esigenze di diritto oggettivo, bensì perseguendo il fine precipuo della tutela dei diritti soggettivi che si trovino ad essere lesi dall’attività provvedimentale della P.A.;
- la P.A., è titolare del potere autoritativo in virtù del quale ha emanato l’atto da disapplicare, ed a essa spetta la facoltà di intervenire in via di autotutela per emendare per motivi di legittimità l’atto o addirittura revocare per motivi di merito, attività di secondo grado non azionabile dal privato, il quale potrà semmai invocare la disapplicazione avanti al giudice ordinario, ricorrendone i presupposti di legge;
- quando il diritto del privato abbia avuto piena espansione per effetto di un provvedimento amministrativo non può compiersi la disapplicazione di questo, su richiesta dell’Amministrazione che vi ha dato causa, in odio al diritto soggettivo, con il risultato di premiare la scorrettezza dei pubblici poteri[5].
Il tempo e il potere ripristinatorio (sanzionatorio)
In definitiva, il giudice richiama (anche se non lo scrive) l’Amministrazione all’esercizio del potere di intervenire sui propri provvedimenti, qualora ne sussistano i presupposti di legge ed entro un termine ragionevole (ex art. 21 nonies della legge n. 241/1990)[6], non potendo impugnare un proprio atto, invocandone l’illegittimità dopo un periodo di inerzia ingiustificata (mancato controllo).
Il proprio potere – dovere di intervenire in autotutela (peraltro, affetto da un elevato grado di discrezionalità)[7] è immanente alla stessa funzione pubblica esercitata, escludendo di converso la facoltà rivolgendosi all’Autorità Giudiziaria (Ordinaria o Amministrativa) al fine di operare, in propria vece, con lo strumento della disapplicazione, specie a fronte di una situazione consolidata nel tempo e al di fuori di ogni termine decadenziale di legge (ormai inesorabilmente spirato).
Sotto questo ultimo aspetto, non indifferente sull’an, si potrebbe richiamare – in una estensione prospettica ai tempi moderni – una nuova dimensione della c.d. inesauribilità del potere di provvedere, giustificato dalla rilevanza superindividuale degli interessi, ossia al di là del singolo amministrato, che se l’azione amministrativa seppure persegue il fine generale (ex art. 97 Cost.) non può esimersi dal dovere di assestare la certezza dei rapporti (il consolidamento) e delle regole del “giusto procedimento”, ove il tempo è un elemento dirimente: deve essere sempre essere stabilito, ex art. 2 della legge n. 241/1990.
In questa lettura, e traslando l’attività che si intenderebbe perseguire con la richiesta di disapplicazione del provvedimento, correlato all’effetto di sterilizzare (annullare) la dichiarata (ex post) illegittimità, anche la valenza del tempo procedimentale non può che rientrare in questa dimensione sacrificale.
In dipendenza di ciò, se la determinazione dei termini di conclusione del procedimento (e dei poteri inibitori/sanzionatori) è rimessa all’Amministrazione in ragione del singolo caso concreto, è difficile ritenere che non debba garantire similarmente che il tempo dell’accertamento della violazione sia ravvicinato rispetto a quello della sua punizione (la restituzione dei compensi).
Risulta, dunque, che l’inutile decorso del tempo dell’agire amministrativo (ovvero, la richiesta restitutoria dell’indebito) ridonda in “illegittimità” del provvedimento di recupero, dovendo aggiungersi che tale processo “sanzionatorio” (nel senso di ripristinatorio) è di per sé una pena (CARNELUTTI), ove si consideri che i principi che governano l’azione amministrativa postulano che «i rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai princìpi della collaborazione e della buona fede» (ex art. 1, comma 2 bis, della legge n, 241/1990, introdotto dal d.l. n. 76/2020), riflesso diretto dell’esigenza di certezza dei rapporti giuridici: non potendo esercitare l’annullamento a distanza di tempo del provvedimento se ne richiede gli effetti (rectius la disapplicazione) al giudice.
Vi sono ulteriori plurime ragioni a fondamento delle argomentazioni (richiamandosi alla giurisprudenza relativamente al potere sanzionatorio e ai termini dell’agire amministrativo, perentori, ordinatori o decadenziali):
- a) la possibilità dell’Amministrazione di provare la sussistenza della violazione si deteriora con il decorso del tempo;
- b) la possibilità per l’amministrato di offrire la prova contraria soffre la stessa sorte;
- c) l’effetto dissuasivo di prevenzione speciale è assicurato dall’esistenza di un lasso temporale ristretto tra contestazione della violazione e adozione del provvedimento sanzionatorio;
- d) in generale, il tempo ha la sua rilevanza come fatto giuridico e, in materia sanzionatoria (assimilabile al caso di specie) alla lunga, esso cancella ogni cosa[8].
L’intera richiesta viene rigettata (con condanna alle spese) con una prima batteria di motivazioni sull’impossibilità di disapplicare il provvedimento in nome e per conto dell’Amministrazione, la quale non può esautorarsi del potere, ormai venuto meno, e pretendere di trasferire al giudice una propria facoltà non delegabile, recuperando i termini spirati della competenza ad agire, privando di effetti l’atto senza disporne l’eliminazione.
Non è possibile in questo habitus garantire immutata l’esistenza nell’ordinamento giuridico del provvedimento amministrativo senza alcun aspetto demolitorio ma allo stesso tempo impedirne, nel caso concreto, la produzione di effetti: su un piano sostanziale significherebbe negare l’efficacia dell’atto legittimo a cura di un terzo.
Ulteriori profili sull’impossibilità di disapplicare l’atto amministrativo
In ogni caso, ammette il Tribunale la disapplicazione deve essere esclusa ogniqualvolta, l’atto amministrativo costituisca il fondamento del diritto dedotto in giudizio.
Si tratterebbe di un evidente ossimoro giuridico, visto che il vero ostacolo all’esercizio del potere di disapplicazione dell’atto amministrativo risiede non nella circostanza che un’Amministrazione sia o meno parte in causa, ma nella rilevanza del provvedimento al livello degli elementi costitutivi della fattispecie dedotta in giudizio.
Viene richiamato il precedente[9]: il giudice ordinario può disapplicare l’atto amministrativo solo quando la valutazione della legittimità del medesimo debba avvenire in via incidentale, ossia quando l’atto non assume rilievo come causa della lesione del diritto del privato, ma come mero antecedente, sicché la questione della sua legittimità viene a prospettarsi come pregiudiziale in senso tecnico e non come principale.
Alla base del potere di disapplicazione vi è la distinzione fra questione pregiudiziale:
- in senso tecnico, rappresenta l’effetto di un distinto rapporto giuridico, esterno rispetto a quello dedotto in giudizio, che tuttavia condiziona quest’ultimo in virtù del nesso di pregiudizialità dipendenza fra situazioni giuridiche; trattandosi di rapporto esterno a quello dedotto in giudizio e oggetto di cognizione solo incidentale;
- in senso logico, attiene invece al rapporto dedotto in giudizio (quale suo fatto costitutivo, impeditivo o estintivo) ed è oggetto di accertamento con efficacia di giudicato: il potere di disapplicazione viene in rilievo solo quando la legittimità dell’atto amministrativo rivesta il ruolo di questione pregiudiziale in senso tecnico.
Se infatti l’atto amministrativo rappresentasse una questione pregiudiziale in senso logico la controversia non sarebbe più su diritti soggettivi ed il giudice ordinario sindacherebbe il potere amministrativo in via principale: nel caso di disapplicazione del provvedimento di determinazione dell’indennità siamo di fronte non di un mero elemento esterno alla fattispecie dedotta in giudizio, ma di una questione che attiene propriamente in modo diretto al rapporto dedotto in giudizio[10].
L’approdo finale conduce al giudicato che esclude la possibilità di disapplicare la delibera di determinazione dell’indennità di carica, configurando la stessa un fatto impeditivo delle pretese del Comune alla restituzione delle somme versate in eccedenza agli ex amministratori che richiede un accertamento con efficacia di giudicato precluso al Giudice ordinario, il quale, diversamente opinando, si troverebbe a dover sindacare il potere amministrativo in via principale: circostanza ad esso preclusa.
Osservazioni minime
La deliberazione di determinazione delle indennità rimane in vigore, esiste nel mondo del diritto, in assenza di una pronuncia giurisdizionale, continua a produrre effetti, alla stessa stregua del provvedimento amministrativo legittimo, ma il suo permanere si pone contra ius con l’evidente esigenza di intervenire per non protrarne gli effetti: la via, nella sua essenzialità, è stata già indicata dal giudice all’interno dei procedimenti di secondo grado.
Astraendo, si rende indispensabile – qualora il fatto si ripresenti – procedere con un primo atto ricognitorio del quadro delle indennità erogate e contestualmente annullare in autotutela le deliberazioni errate e stabilire i reali compensi che avrebbero dovuto essere al contrario legittimamente attribuiti, con recupero delle differenze, tra quanto dovuto e quanto corrisposto: la controversia rientra nella giurisdizione del giudice ordinario[11].
I consiglieri e gli amministratori comunali si pongono in rapporto di servizio di natura onoraria con l’Amministrazione di appartenenza, per cui, stante il carattere del rapporto intercorrente, qualsiasi richiesta riferita al loro trattamento economico, spettante per legge, ex art. 82 del d.lgs. n. 267/2000, rientra nella giurisdizione del Giudice Ordinario[12].
(Restituzione dell’indennità di carica e disapplicazione della deliberazione di determinazione degli importi da parte del G.O., lentepubblica.it, 5 gennaio 2022)
[1] La norma di riferimento è quella dell’art. 82 del d.lgs. n. 267/2000, in ordine al trattamento economico degli amministratori locali, distinguendo fra indennità di funzione e gettoni di presenza: la prima riservata alle cariche di Sindaco, Presidente del Consiglio comunale e Assessori, il cui ammontare è stato stabilito in generale con il decreto del Ministro dell’interno 4 aprile 2000, n. 119, salvo recenti aggiornamenti (cfr. decreto MI 23 luglio 2020, Incremento dell’indennità di funzione per l’esercizio della carica di sindaco nei comuni delle regioni a statuto ordinario con popolazione fino a 3.000 abitanti; commi 583 – 587 dell’articolo 1, della legge n. 234/2021); gli altri, di spettanza dei consiglieri comunali in ragione della effettività della partecipazione alle sedute, Cons. Stato, sez. II, 24 dicembre 2020, n. 8336.
[2] In effetti, in via generale allorché il giudice debba vagliare situazioni che presentano aspetti di pubblico interesse o possa trovarsi a scrutinare la legittimità di provvedimenti amministrativi, le questioni che insorgono circa i confini dei poteri al riguardo del giudice ordinario attengono al merito e non alla giurisdizione, investendo l’individuazione dei limiti interni posti dall’ordinamento alle attribuzioni del giudice ordinario: il c.d. divieto di annullare, modificare o revocare il provvedimento amministrativo, ai sensi dell’art. 4 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E), Cass. civ., sez. Un., ord., 8 marzo 2019, n. 6883. Ed in ogni caso qualora il giudice deve riscontrare una inadeguatezza dei mezzi impiegati dall’Amministrazione per il conseguimento di un determinato fine, dovrà limitarsi ad indicare per linee generali la più esatta strada procedimentale da seguirsi, non potendo, al contrario, estendere abusivamente la propria potestas sino a sindacare particolareggiate e specifiche modalità di esercizio della funzione amministrativa al punto da sostituirsi all’Amministrazione nell’esercizio della stessa, Cass. civ., sez. I, Ord., 5 novembre 2015, n. 22606.
[3] Sotto altro profilo, qualora l’amministratore non comunichi la propria condizione di lavoratore dipendente, percependo illegittimamente l’indennità di funzione, in misura piena invece che in misura dimezzata, violando l’art. 82, comma 1, parte finale, del d.lgs. 267/2000, risponde di danno erariale, Corte conti, sez. III giur. Appello, 10 settembre 2013, n. 574.
[4] Cass. civ., sez. I, Ordinanza 4 luglio 2018, n. 17486 e 6 febbraio 2015, 2244; sez. Un., 2 novembre 2018, n. 28053.
[5] Cass. civ., sez. lav., Ordinanza 9 marzo 2010, n. 5703. La sentenza richiama una serie di precedenti, alcuni dei quali: Cass. 4854/1998, con riferimento ad una fattispecie nella quale un Comune invocava l’illegittimità di una concessione da esso medesimo rilasciata, al fine di sottrarsi all’obbligo di risarcimento del danno scaturente da provvedimento di annullamento della concessione, riconosciuto illegittimo dal giudice amministrativo per motivi formali; Cass. 13941/2009 che ha applicato il principio in una controversia nella quale un ente locale aveva dedotto l’illegittimità della delibera con la quale aveva riconosciuto il compenso ad un proprio dipendente in deroga al tetto fissato dall’art. 18 della legge n. 109/1994.
[6] Va chiarito che in tema di giurisdizione, le domande di accertamento della nullità o illegittimità e comunque di annullamento dei provvedimenti adottati dalla P.A. non rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario, trattandosi di provvedimenti amministrativi dei quali non è prevista, appunto, l’autonoma impugnazione avanti al giudice ordinario, Tribunale Monza, sez. Lav., 17 giugno 2015.
[7] Il potere di autotutela si esercita discrezionalmente d’ufficio, essendo rimesso alla più ampia valutazione di merito dell’Amministrazione, e non su istanza di parte, aventi valore di mera sollecitazione, non vi è alcun obbligo giuridico di provvedere, Cons. Stato, sez. V, 3 ottobre 2012, n. 5199 e sez. III, 1° febbraio 2019, n. 806.
[8] Cons. Stato, sez. VI, 19 gennaio 2021, n. 584.
[9] Cass. civ., sez. III, 22 febbraio 2002, n. 2588.
[10] Cfr. Cass. civ., sez. III, 12 dicembre 2019, n. 32505 e sez. Un., 2 novembre 2018, n. 28053.
[11] TAR Lazio, Roma, sez. II bis, 26 ottobre 2018, n. 10376, idem TAR Emilia Romagna, sez. Parma, 6 marzo 2017, n. 88.
[12] Cons. Stato, sez. V, 26 febbraio 2014, n. 922.