Il DPR 13 giugno 2023, n. 81, in vigore dal 14 luglio 2023, ha inserito nel Codice di comportamento (il DPR n. 62/2013) una nuova fonte, da alcuni (i c.d. logici) ritenuta superflua (che di fatto non sembra esserlo) vista la ragionevolezza di una condotta che non potrebbe non essere percepita come lesiva ex se, quale quella di usare l’identità digitale (rectius profili di vita privata da condividere con like) sui profili on line, senza avere cura (consapevolezza) degli effetti “domino”, nel senso che l’eccesso (i nostrani definiscono “buon gusto”) di “umanità” (a volte) non si concilia con la funzione pubblica ricoperta (ex artt. 54 e 98 Cost.), anche se le condotte (postate, immagini o video short) sono avvenute in orario extralavorativo, c.d. fuori servizio.
La libertà e l’uso dei social
In effetti, una lettura sommaria ma attenta del nuovo art. 11 – ter, Utilizzo dei mezzi di informazione e dei social media, esigerebbe una certa prudenza, atteso che «nell’utilizzo dei propri account di social media, il dipendente utilizza ogni cautela affinché le proprie opinioni o i propri giudizi su eventi, cose o persone, non siano in alcun modo attribuibili direttamente alla pubblica amministrazione di appartenenza», postulato che troverebbe applicazione comunque già dal tessuto normativo in essere, senza ricorrere ad un eccesso di “censura” nella parte descritta al comma secondo (di dubbia costituzionalità, ex art. 21 Cost.) quando afferma «in ogni caso il dipendente è tenuto ad astenersi da qualsiasi intervento o commento che possa nuocere al prestigio, al decoro o all’immagine dell’amministrazione di appartenenza o della pubblica amministrazione in generale».
Nel complesso e andando oltre, si può comprendere che la tecnologia digitale e il suo ambiente diffondono tout court quanto immesso, sicché la manifestazione di quanto diffuso non ha limiti di destinatari (o quanto meno di coloro che accedono alla singola piattaforma): quanto versato in rete, nei network, raggiunge una platea estesa di osservatori, senza confini.
Il caso
La sez. II del Consiglio di Stato con la sentenza 10177 del 28 novembre 2023, interviene ritenendo legittima una sanzione disciplinare (deplorazione) patita da un dipendente pubblico quando, attraverso l’uso di una app (applicazione mobile), discredita l’Amministrazione non rilevando che la condotta posta in essere sia riferita alla sua “vita privata” (fuori dalle mura o fuori orario di servizio).
L’agente ricorrente si lamenta:
- della sanzione attinente ad «un video diffuso sull’applicazione di comunicazione telematica “Whatsapp”, in cui egli era visibile mentre correva nudo di sera tra la neve in un bosco», anticipata da una sospensione e da un accertamento medico sull’assenza di patologie neuropsichiatriche (ovvero, la sua idoneità al lavoro);
- dell’erronea definizione ed applicazione del comune senso del pudore e del decoro (c.d. travisamento dei fatti), ricadente con effetti negativi sul prestigio dell’Istituzione;
- sulla violazione dei diritti della personalità atteso che l’invio del video era riservato ad una cerchia ristretta (quattro) di amici, senza alcuna autorizzazione (consenso dato) alla diffusione;
- in particolare «non avrebbe «fatto nulla di male», essendosi limitato a partecipare, all’estero, ad una competizione sportiva “estrema” che prevede la corsa dei partecipanti di notte nella neve completamente nudi», rilevando sotto il profilo fattuale che l’attività avveniva «nell’ambito della propria vita privata, al di fuori dell’orario di servizio e senza in alcun modo palesare né la propria identità né la propria appartenenza» ad una determinata Amministrazione Pubblica (Forze di polizia).
La sentenza
Il Giudice di seconde cure nel rigettare l’appello poiché infondato annota da principio che:
- in materia disciplinare l’Amministrazione esercita un’amplissima discrezionalità tecnica, pregiudicando uno scrutinio sulle valutazioni compiute dall’organo disciplinare, salvo i casi di palese travisamento dei fatti, manifesta illogicità, notevole e evidente sproporzione e abnormità;
- spetta all’Amministrazione, in sede di formazione del provvedimento sanzionatorio, stabilire il rapporto tra l’infrazione e il fatto, il quale assume rilevanza disciplinare in base ad un apprezzamento di larga discrezionalità[1].
Osserva altresì, che:
- le deduzioni sulle ragioni del fatto e sulla percezione della nudità in alcuni contesti culturali risultano del tutto ininfluenti nel merito;
- la valutazione effettuata del fatto in sé (l’intento goliardico ed esibizionista) risulta del tutto incompatibile da parte di un soggetto che riveste un ruolo di lavoro determinato da riserbo e contegno, sicché la diffusione a terzi del video urta con il ruolo esigibile (di un appartenente ad un corpo che impone uno stile di vita «irreprensibile quanto al decoro, all’immagine offerta ai consociati, all’osservanza dei valori ordinariamente percepiti dalla comunità sociale», a prescindere dal momento commissivo[2];
- la condotta, seppure assunta in un ambiente privato e fuori servizio, tuttavia, qualora venga divulgata a terzi esce dalla sfera interna del soggetto (riservatezza) per assumere una dimensione pubblica.
La sentenza conferma la sanzione applicata correlata al discredito per l’Amministrazione di appartenenza, a nulla rilevando il fatto che il dipendente non fosse riconoscibile nel video, quale appartenente a quella specifica Amministrazione, visto che «il discredito può determinarsi anche tramite la visione del filmato da parte di chi conosca personalmente il protagonista e in particolar modo i suoi colleghi o gli abitanti» del luogo, ovvero che associ il protagonista dell’evento e il mestiere pubblico esercitato, specie quando il soggetto gode per capacità meritevoli di menzione sulla stampa locale.
Inoltre, viene precisato (volendo estendere i principi in generale) che seppure un atto interno (circolare o regolamento) imponesse chiare condotte sanzionabili, risulterebbe evidente che l’elencazione non potrebbe ritenersi tassativa non potendo riportare tutte le condotte non adeguate (la percezione del c.d. minimo etico non lo impone), dovendo semmai comprendere che l’utilizzo dei cosiddetti “social network” dovrebbe essere evitato, proprio perché ricoprendo determinati ruoli la discrezione e la prudenza (compostezza e sobrietà cui «l’appartenente alle forze dell’ordine deve improntare la propria condotta, a prescindere dalla sua liceità») è una regola elementare anteposta ad ogni condotta in servizio e fuori servizio.
Si ricava, anche dalle parole del Collegio, che l’uso dei social costituisce uno strumento non sotto il dominio del singolo, ma una volta entrato nella rete (il comportamento, l’immagine, gli scritti), pure nella piattaforma “Whatsapp”, «può essere fisiologicamente e strutturalmente inviato ad altri soggetti, che a loro volta posso ulteriormente inviarlo, così come i successivi destinatari, secondo uno schema di propagazione esponenziale tendenzialmente illimitato», dissipando quella pretesa intimità (tra pochi amici) che, attraverso tale mezzo di comunicazione on line, produce un moltiplicatore incontrollato di follower (il c.d. effetto virale): una diffusione indiscriminata che nuoce all’immagine pubblica da una parte, per il ruolo ricoperto dall’interessato, e dall’altra, dall’aspettativa di credibilità e serietà riposta nel lavoro nell’Istituzione.
Il dovere di lealtà
In termini diversi, la condotta una volta giunta nell’ambiente social si espande per forza di diffusione, associando il singolo con le sue performance e di riflesso le ricadute sul suo mondo lavorativo (un effetto di comunione), in aperta contraddizione con l’obbligo del lavoratore di tenere un comportamento leale verso il datore di lavoro e di tutelarne in ogni modo gli interessi: caratteri che attengono al principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto (di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.), che impone a ciascuna delle parti il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge[3].
La condotta extralavorativa (vedi, comma secondo dell’art. 54 Cost.) impone un dovere di fedeltà che si sostanzia nell’obbligo del lavoratore di astenersi da attività contrarie agli interessi del datore di lavoro, tali dovendosi considerare anche quelle che, sebbene non attualmente produttive di danno, siano dotate di potenziale lesività[4].
Detto in parole ancora più marcate e applicabili all’intero settore della PA, il codice di comportamento e le attività social esigono un giusto bilanciamento tra espressione del proprio pensiero, sempre da garantire, e identità personale (modo di vivere), dove gli eccessi o le condotte prestazionali (quelle che si distinguono nell’ansia c.d. prestazionale di numero di visioni/accessi al profilo) seguono delle regole (negoziali) determinate per non entrare in conflitto di interessi con l’Amministrazione di appartenenza: pensare di violare le regole nella vita privata e pretendere in quella pubblica di farle rispettare dimostra tutti i limiti di quella insensibilità di giudizio che coincide con la violazione del c.d. minimo etico[5].
[1] Cons. Stato, sez. II, 31 marzo 2023, n. 3325; 20 febbraio 2023, n. 1724; 7 novembre 2022, n. 9756; 14 giugno 2022, n. 4858; 20 maggio 2022, n. 4012 e 21 marzo 2022, n. 2004; sez. IV, 29 marzo 2021, n. 2629 e 22 marzo 2021, n. 2428.
[2] Cons. Stato, sez. VI, 4 luglio 2011, n. 3963.
[3] Cass. civ., sez. lavoro, ordinanza 11 febbraio 2021, n. 3543.
[4] Corte Appello Milano, sez. lavoro, 17 settembre 2020.
[5] Vedi, LUCCA, Il dovere del c.d. minimo etico ascrivibile al dipendente pubblico, lentepubblica.it, 7 giugno 2021.