Assistiamo ad una recente filiera normativa di emergenza che nell’intento “risorgimentale” di rifare l’Italia e di rispettare il command comunitario di ridurre la spesa pubblica, tra promesse e proclami, intenderebbe anche riformare il rapporto di lavoro nella pubblica amministrazione, pretendendo l’aumento della produttività e dell’orario di servizio ma diminuendo il salario e precarizzando il dipendente pubblico, specie se dirigente, in evidente contrasto con l’obiettivo generale “delle politiche del lavoro pubblico”; politiche, oltre che norme di legge, tese ad assumere il personale pubblico attraverso un concorso e a tempo indeterminato (il lavoro a termine è, o era, una eccezione).
Qualche dovuta perplessità sul reale intento di questa riforma, tra le tante riforme annunciate, è possibile immaginare in un nuovo concetto (e prassi) di relazioni e di contrappesi tra “politica”, che opera rivolta all’indirizzo e alla programmazione, e “amministrazione”, che si adopera per la gestione e il risultato; un tempo il “principio di separazione” garantivano l’imparzialità e l’indipendenza (rectius la legalità) della pubblica amministrazione, precludendo qualsiasi interferenza e confusione nell’esplicazione dell’azione amministrativa, in conseguenza della chiara individuazione dei compiti e delle conseguenti responsabilità politiche e tecniche.
Il dirigente, quale archetipo del dipendente pubblico posto al vertice della struttura amministrativa, deve, dunque, essere in grado di saper espletare il proprio ruolo nel rispetto delle regole cui è improntata l’azione della p.a., dove certamente il momento dell’efficienza non deve essere dissociato da quello della legalità, posta a tutela della collettività amministrata, con il doveroso riflesso della cura dell’interesse pubblico, principalmente riconducibili agli articoli 3 e 97 della Costituzione, sempre difeso dalle influenze della politica, se divergenti da detti principi fondamentali.
Nel nostro ordinamento, il principio di separazione tra funzioni di indirizzo politico-amministrativo, spettanti agli organi di governo, e funzioni di gestione amministrativa, proprie dei dirigenti, individua l’esatta linea di demarcazione tra gli atti da ricondurre alle funzioni dell’organo politico e quelli di competenza della dirigenza amministrativa.
A sua volta, tale potere incontra un limite nel citato art. 97 Cost.: il Legislatore non può compiere scelte che, contrastando in modo irragionevole con il principio di separazione tra “politica e amministrazione”, ledano l’imparzialità della pubblica amministrazione.
Tutto questo per dire, da una parte, si introdurrebbe (è stato introdotto) l’abrogazione del divieto di reformatio in peius, dall’altra, la nomina dei dirigenti pubblici “senza onere di motivazione” e con incarichi triennali a termine (dopo due anni senza riconferma è previsto il licenziamento), inseriti in un albo a fasce o sezioni a cui possono accedere ope legis (senza concorso, in evidente violazione con l’ultimo comma dell’articolo 97 Cost.) gli esterni (alcuni la ritengono una sana contaminazione) purchè nominati dagli organi politici, con un evidente potenziamento dello spoils system e depotenziamento dell’indipendenza della dirigenza (specie se di ruolo).
Sulla previsione di meccanismi di spoils system, già in più occasioni la Corte Costituzionale ha chiarito che si pone in contrasto con l’art. 97 Cost., in quanto pregiudica la continuità dell’azione amministrativa, introduce in quest’ultima un elemento di parzialità, sottrae al soggetto dichiarato decaduto dall’incarico le garanzie del giusto procedimento e svincola la rimozione del dirigente dall’accertamento oggettivo dei risultati conseguiti.
Lo spoils system se privilegia la discrezionalità politica e consente il ricambio della dirigenza in armonia con gli organi elettivi non rieletti, dall’altra nuoce alla continuità amministrativa e valorizza l’aspetto fiduciario non su un piano della capacità e dei titoli professionali (il tanto gridato “merito”) quanto sull’appartenenza ad una parte politica rispetto ad un’altra, sminuendo e svilendo l’intera architettura dei padri costituenti quando stilarono che “i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”, per marcare una significativa differenza dell’organizzazione amministrativa, nel suo complesso, in chiave democratica rispetto al precedente regime fascista: il Costituente pone il dipendente pubblico al servizio esclusivo della Nazione e non di una parte politica, con l’obiettivo di escludere ogni possibilità, anche in via astratta, di acquisire privilegi dalla politica, esprimendo la preminenza e giuridicità della doverosa realizzazione del fine pubblico.
Sembra di comprendere che siamo proiettati in una dimensione nuova del pubblico impiego, se da una parte, non è possibile istaurare il rapporto di lavoro senza concorso, dall’altra, senza concorso si entra nell’albo della dirigenza pubblica e tutti gli iscritti (con concorso e senza) sono asserviti allo spoils system.
Non va sottaciuto, per dovere di completezza, che sul precariato dei dipendenti pubblici, abbiamo assistito a più riprese ad azioni tese al suo superamento ritenendo “superfluo evidenziare che il tema del precariato… determina situazioni incompatibili con il principi dell’articolo 97 della Costituzione che sono alla base dell’organizzazione e del corretto funzionamento delle amministrazioni pubbliche, ma anche con quelli dell’articolo 1 e 4 della Carta Costituzionale che il datore di lavoro pubblico, ancor di più di quello privato, ha l’obbligo di rispettare”, ammettendo che “sono sempre più pressanti gli effetti delle procedure di infrazione avviate, in sede comunitaria, nei confronti dell’Italia per il fenomeno del precariato storico nella PA”.
In aggiunta, sempre con la decretazione d’urgenza, in disarmonia con la tripartizione dei poteri e i pronunciamenti della Corte Costituzionale sull’abuso di tale metodo, si eliminano i c.d. diritti di rogito ai Segretari comunali per le funzioni di ufficiale rogante (quindi, non eliminazione del provento che è “attribuito integralmente al comune o alla provincia” e senza considerare che trattasi di parte della retribuzione a fronte di una prestazione lavorativa) e si riconoscono le funzioni dirigenziali “prescindendo dal possesso del titolo di studio”, in altrettanta violazione del dovere di accertare professionalità e i titoli di accesso.
Pare giusto ricordare che la facoltà del Legislatore di introdurre deroghe al principio del concorso pubblico deve essere delimitata in modo rigoroso, potendo tali deroghe essere considerate legittime solo quando siano funzionali esse stesse al “buon andamento” dell’amministrazione (e non del politico di turno) e ove ricorrano peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico idonee a giustificarle.
Invero, per costante orientamento della Corte Costituzionale, anche il passaggio dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni ad una fascia funzionale superiore – comportando l’accesso ad un nuovo posto di lavoro corrispondente a funzioni più elevate – è soggetto alla regola del pubblico concorso enunciata dal terzo comma dell’art. 97 della Costituzione; d’altra parte, il pubblico concorso, in quanto metodo che offre le migliori garanzie di selezione dei più capaci è un meccanismo strumentale rispetto al canone di efficienza dell’amministrazione, il quale può dirsi pienamente rispettato qualora le selezioni non siano caratterizzate da arbitrarie forme di restrizione dei soggetti legittimati a parteciparvi, ovvero siano riservate al solo personale interno.
Simili condizioni, oltre a contrastare con il suddetto principio del pubblico concorso, sono illegittime anche in riferimento ai principi di uguaglianza e di buon andamento della pubblica amministrazione.
Sotto i profili qui considerati, il Legislatore interviene direttamente sul rapporto di lavoro pubblico, non con una norma inserita in un contesto ordinamentale di riforma ma sporadicamente (quasi uno spot comunicativo), eliminando parte della retribuzione del dipendente pubblico (immagino per aumentare le entrate delle casse pubbliche), dall’altra, riconoscendo (inspiegabilmente forse) agli uffici alle dirette dipendenze degli organi elettivi (ex art. 90 del D.Lgs. n.267/2000) l’inquadramento retributivo da dirigenti, senza pur tuttavia averne i requisiti di legge (“prescindendo dal titolo di studio”), in non apparente disparità di trattamento con la dirigenza pubblica e con un notevole aggravio di spesa per le casse degli enti locali.
Su questo preciso ultimo aspetto, si è già pronunciata la Corte dei Conti condannando per danno erariale, in quanto pari al depauperamento patrimoniale patito dall’amministrazione, alcuni amministratori e dirigenti in relazione a rapporti di lavoro a tempo determinato presso gli uffici di staff (ex art.90 del D.Lgs. n.267/2000) illegittimamente incardinati con diversi soggetti, estranei alla Amministrazione medesima, “senza aver partecipato ad alcun concorso e senza essere in possesso di un diploma di laurea”; confermando che le assunzioni dall’esterno non “debbano essere lasciate al mero arbitrio degli amministratori, senza alcun vincolo di corrispondenza tra il trattamento economico di categoria… normativamente previsto e i requisiti minimi, culturali e professionali, atti a giustificare la corresponsione di quel trattamento anche in assenza della laurea”.
Significativamente, la Corte dei Conti intende precisare che “al riguardo effetto tranciante hanno le considerazioni della Corte Costituzionale… per le quali: “Il riconoscimento agli amministratori pubblici… di un certo grado di autonomia nella scelta dei propri collaboratori esterni…, non esime… dal rispetto del canone di ragionevolezza e di quello del buon andamento della pubblica amministrazione”, questa prospettazione per affermare che il fine del quadro normativo di riferimento è quello di evitare l’assunzione (sia pure a tempo determinato) “di personale sfornito dei requisiti normalmente previsti per lo svolgimento di funzioni che è destinato ad esplicare determini l’inserimento nell’organizzazione pubblica di soggetti che non offrono le necessarie garanzie di professionalità e competenza”.
Ciò posto, appare opportuno richiamare alcuni recenti pronunciamenti giurisprudenziali (oltre a quelli già elencati) che inducono a ritenere di dubbia legittimità costituzionale le iniziative intraprese, soprattutto ove si consideri competente la “contrattazione collettiva”, quale unica fonte capace di incidere sul rapporto di lavoro pubblico e la necessità di motivare le nomine di responsabilità apicale, evitando condotte arbitrarie non fondate su una reale selezione tra più candidati e sulla verifica della professionalità.
La prima sezione del T.A.R. Umbria, con la sentenza n.248 del 6 maggio 2014, interviene in occasione del diniego, da parte del Ministero della Giustizia, al mantenimento di una determinata indennità a seguito del transito nei ruoli tecnici amministrativi… Risulta, quindi, demandato dalla legge alla contrattazione collettiva il suo adeguamento e, in assenza di recepimento da parte della contrattazione collettiva, non è possibile procedere ad alcun riassorbimento, stabilendo de plano che eventuali circolari interpretative delle norme di legge da parte del Ministero vanno disapplicate, poiché prive di qualsivoglia efficacia anche interna all’Amministrazione in quanto contra legem
Giova allora visionare la sentenza n. 16247 del 16 luglio 2014, della sezione Lavoro della Cassazione, e comprendere che è necessaria una motivazione nell’individuare le figure dirigenziali degli enti locali (posizione organizzativa).
Il ragionamento seguito dal vertice della giurisdizione ordinaria italiana, dopo aver chiarito che gli atti di organizzazione esecutiva, cioè gli atti di microrganizzazione, assunti con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro, quali gli atti di individuazione delle posizioni organizzative non sono di per sé censurabili in sede giurisdizionale, essendo riservati al potere discrezionale della Pubblica Amministrazione, questo non è condizione dirimente che impedisca di rendere una dovuta motivazione sulla scelta operata.
La sezione lavoro della Corte, tiene a puntualizzare che l’obbligo di motivazione non può prescindere dalla scelta di un aspirante anziché di un altro, anche in mancanza di una formale procedura concorsuale, con il precipitato della obbligatorietà di una valutazione comparativa, segnando un principio di diritto: “La motivazione degli atti di individuazione delle Posizioni Organizzative da parte degli Enti Locali, deve essere operata ed espressamente motivata anche con riferimento ad una valutazione comparativa degli aspiranti alle posizioni in contestazione”.
Volendo trarre alcune brevi conclusioni, l’assenza di parametri valutativi nell’individuazione della dirigenza, l’inserimento della stessa negli apparati pubblici senza una procedura concorsuale e senza titoli, la precarizzazione del posto di lavoro dei vertici pubblici in ragione di un generalizzato spoils system, l’intervento diretto sul contratto di lavoro senza alcuna mediazione dei diretti interessati, costituisce più che una riforma del pubblico impiego, proiettata al merito e alla produttività, il travolgimento dei principi costituzionali in materia e sbilancia i rapporti tra “politica” e “amministrazione”, con un’azione amministrativa rivolta più al perseguimento di un interesse particolare che all’interesse generale, e questo rappresenterebbe il declino della legalità e la corruzione del sistema, non necessariamente sotto il profilo della visione penale e/o amministrativa del termine.
(Estratto, Sfasature prospettiche nella riforma del pubblico impiego, LexItalia, 2014, 7 – 8)