Siamo a distanza di anni, ancora una volta, alla nuova riforma della riforma… dei servizi pubblici e delle società partecipate.
Il limite (l’auspicio) è sempre quello: aprire al mercato, introdurre norme non di facciata, assicurare una versa concorrenza.
Eppure leggendo i decreti di riforma (quelli attuativi della legge n.124/2015), qualche perplessità rimane.
Segue intervento datato, ma attuale.
“Il principio della gara è quello che più di altri si connota alla concorrenza in ambito comunitario, e si caratterizza per una procedura ad evidenza pubblica capace di scegliere il contraente secondo parametri trasparenti, aperti e solidali, equivalente costituzionale di imparzialità e buon andamento (ex articolo 97 Cost.) che presidia tutta l’azione della p.a. a livello nazionale.
La concorrenza è divenuta sinonimo di liberalizzazione e privatizzazione del “Sistema Paese”, per riformulare gli obiettivi strategici della politica non solo industriale ma organizzativa dell’apparato pubblico, nei suoi diversi ambiti istituzionali, per uno sviluppo sostenibile (durevole) e per una amministrazione pubblica sempre più orientata ad erogare servizi e prodotti più che a produrre atti e provvedimenti, per rimanere in Europa.
La liberalizzazione e la privatizzazione ha portato, sin dai primi anni novanta, a riformulare la disciplina dei servizi pubblici locali per separare la proprietà delle reti e delle infrastrutture dalla gestione, per affidare i servizi in concorrenza e con procedure aperte (ictu oculi con gara).
Margini di deroga, all’evidenza pubblica, ingenerano il convincimento di situazioni patologiche (fuori norma) che obliterano i principi di legalità, evitando la rigidità di una predeterminazione assoluta, ma a vantaggio di una sola parte travolgendo i canoni del giusto procedimento in nome di un interesse superiore, attivabile legittimamente a fronte di inevitabili e contingenti situazioni e/o per motivate ragioni di legge (di stretta applicazione).
Si poteva affermare (in vigenza della precedente normativa) che è, pertanto, “illegittima una deliberazione del Consiglio comunale con la quale è stato affidato senza gara ad una Azienda speciale comunale il servizio di riscaldamento degli immobili comunali (con affidamento anche dei relativi lavori di manutenzione), essendo necessario in tale ipotesi il previo esperimento di una procedura concorsuale, non potendosi procedere all’affidamento diretto del servizio, atteso che quest’ultimo esula dalla previsione di cui all’art. 22 della L. n. 142/1990”, giacché “per applicare l’art. 22 della L. n. 142/1990 (confermato dal successivo art. 112 del D.P.R. n. 267/2000) – secondo cui gli Enti locali possono provvedere direttamente alla gestione dei “servizi pubblici” (anche tramite proprie aziende speciali), servizi pubblici che abbiano per oggetto produzione di beni ed attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali – non è sufficiente la semplice riconducibilità del servizio ad un ente pubblico, occorrendo invece che il servizio abbia una sua (soggettiva ed) oggettiva qualificazione che deve garantire (anche alla prestazione economica) una realizzazione di prevalenti fini sociali e di promovimento dello sviluppo economico e civile delle relative comunità, realizzazione che certo non può essere riferita ad una mera prestazione economica svolta a favore di un Comune”.
È da rilevare che il Consiglio di Stato ha, tuttavia, affermato che “in sede d’interpretazione a norma dell’art. 234 del Trattato CE (sentenza Teckal ed ordinanza pronunciata il 14 novembre 2002), è stato chiarito dalla Corte di Giustizia che la direttiva 93/36/CEE – e, quindi, per l’ordinamento italiano, il d.lgs. n. 358 del 1992 – deve applicarsi per l’aggiudicazione di un contratto di fornitura di beni, salvo che l’amministrazione aggiudicatrice eserciti sul fornitore, che sia un soggetto distinto da essa, un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi, e sempre che il fornitore svolga la parte più importante della propria attività con l’amministrazione o le amministrazioni che lo controllano”, per poi affermare che “la possibilità di derogare alla regola della gara pubblica nel caso in cui l’amministrazione aggiudicatrice eserciti sul fornitore, che sia un soggetto distinto da essa, un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi, e sempre che il fornitore svolga la parte più importante della propria attività con l’amministrazione o le amministrazioni che lo controllano, trova la sua ratio nel fatto che, nei confronti di un soggetto controllato e che svolga la sua prevalente attività per il soggetto controllore, non sono ravvisabili situazioni di pregiudizio per la parità di trattamento degli altri operatori economici e per il rispetto delle regole di concorrenza. Tale deroga non riguarda solo le articolazioni interne delle amministrazioni aggiudicatrici, le quali sarebbero prive di soggettività separata, ma anche qualsiasi soggetto giuridicamente distinto dall’amministrazione aggiudicatrice, purché sussistano le predette condizioni”.
Neppure conferente appare il richiamo che la trattativa privata, promossa al di fuori dei casi consentiti, sia potenzialmente lesiva della posizione soggettiva dell’impresa che intende operare nel e sul mercato attraverso un contratto da stipularsi con la p.a., poiché la violazione delle regole della concorrenza è (sic) proiettata sul piano pubblicistico della mancanza di trasparenza ed imparzialità assicurata dalla normativa dell’evidenza pubblica.
Il vigore della materia della contrattualistica pubblica consente di derogare (per un appalto) alla regola generale della concorrenzialità quando occorre che la prestazione, oggetto del contratto, possa essere eseguita – per ragioni tecniche, artistiche o di tutela di diritti esclusivi – soltanto da un particolare e ben determinato soggetto, e questa circostanza deve essere dimostrata in concreto, sia con riferimento al caso pratico che alla norma autorizzativa, per poter procedere motivatamente a trattativa privata [3].
L’esigenza di assicurare nelle gare pubbliche la più ampia partecipazione possibile di concorrenti (offerenti o candidati) – quale presupposto per la conclusione del contratto alle migliori condizioni – è un principio già generale rinvenibile dalla Legge 20 marzo 1865, n. 2248 all. F), recepito successivamente in tutte le leggi in materia di contabilità e lavori pubblici nel prevedere, per l’acquisizione dei beni o dei servizi, il metodo che faceva riferimento alle “aste e alle altre operazioni di appalto ed agli incanti”, stabilendo che la trattativa privata (ergo diretta) costituisce una deroga al principio della concorsualità ed è un istituto di stretta applicazione, e come tale ammissibile solo nelle ipotesi tassativamente previste dall’ordinamento e in presenza dei presupposti di volta in volta richiesti.
Le previsioni contenute nel diritto comunitario (al di là della sua “neutralità” rispetto alle scelte organizzatorie e gestorie effettuate a livello nazionale) in tema di appalti pubblici diretti a promuovere le libertà di scambio e di circolazione delle merci, di riflesso tendono ad eliminare il ricorso alla trattativa privata, conformemente all’impostazione generale del Trattato di Roma, proiettato a garantire la libera concorrenza e la par condicio fra i soggetti abilitati all’aggiudicazione dell’appalto pubblico e rappresentano principio guida di carattere generale dell’ordinamento interno, nel rispetto del principio di rule of law.
L’attuale forma di affidamento di servizi pubblici (a rilevanza economica) disciplinata dal Testo Unico degli Enti Locali prevede all’articolo 113, comma 5, lettera c) è che “l’erogazione del servizio avviene secondo le discipline di settore e nel rispetto della normativa dell’Unione europea, con conferimento della titolarità del servizio… a società a capitale interamente pubblico a condizione che l’ente o gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti pubblici che la controllano”…
Assistiamo, per altro verso, ad una prospettiva di riforma dei servizi locali che ispirati alla piena applicazione dei principi comunitari di liberalizzazione e apertura al mercato, in realtà producono dei paradossi giuridici con la realizzazione di “esternalizzazioni improprie”, mantenendo la titolarità sostanziale dei processi decisionali, privatizzando formalmente il soggetto gestore del servizio (in ragione della separazione tra proprietà e gestione), ma falsando gli obiettivi promessi con una “terziarizzazioni di attività presso un soggetto controllato con il fine principale di recuperare “spazi” altrimenti preclusi all’Ente Locale…, delineando le basi per la trasformazione dell’Amministrazione di riferimento da “parte pubblica interveniente” a “holding”.
L’autonomia decisionale, la separazione tra la proprietà delle infrastrutture – reti con il soggetto gestore del servizio inducono a ritenere che non vi possa essere commistione di ruoli ma funzione e scopi diversi, pur in presenza di un fine comune, quale quello di accedere ad un servizio di pubblica utilità, di interesse pubblico generale, di miglioramento della qualità e standard offerto all’utenza.
La riforma dei SPL dovrebbe spingersi a riaffermare un ruolo trainante dell’ente locale, per una liberalizzazione che esprima un valore reale di libertà ma soprattutto di concorrenza, per garantire un livello di efficienza capace di ridare forza agli investimenti e credibilità ai servizi, piuttosto che “conferire legittimità a provvedimenti posti in essere sotto il vigore di una diversa disciplina”, sanando (in altri termini) affidamenti diretti senza alcuna copertura normativa ma sostenuti da una politica industriale protezionistica e monopolista, non ancora in grado di entrare in reale competizione (o forse in Europa) [5].
Per la verità il contrasto potrebbe avvenire su altro piano concettuale, definendo i poteri e le relazione tra i due soggetti (tra ente e società controllata), rilevando che gli affidamenti non possono che avvenire tra parti che non godano di alcuna relazione interorganica o di controllo, definendo una procedura che sia in grado di dare concorrenzialità alla scelta del contraente, e impedire che un servizio venga affidato ad un soggetto predeterminato in presenza di un rapporto di controllo o collegamento.
La concorrenza verrebbe rapportata a criteri di piena indipendenza, evitando che l’ente proprietario affidi servizi pubblici direttamente a proprie partecipate, ma debba sempre e comunque attivare una procedura concorsuale, precludendo (a priori) che vi siano ipotesi di ingerenza secondo i canoni indicati dalla disciplina indicata dall’articolo 2359 del codice civile.
Si dovrebbe impedire che gli affidamenti avvengano a soggetti in grado di disporre della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria, o di voti sufficienti per esercitare un’influenza prevalente nella compagine sociale, o di influire con una posizione dominante l’affidatario in virtù di particolari vincoli contrattuali.
Gli appalti in house sembra, a contrario, possedere tutte le caratteristiche evidenziate, caratteristiche che legittimano l’affidamento diretto del servizio in un regime privo di concorrenza, simile agli affidamenti dei servizi privi di rilevanza economica, e tipici della normativa degli affidamenti agli enti no profit o per la gestione dei beni culturali (solo per fare un esempio)…
Se quindi il modello gestionale è quello societario, non vi possono essere dubbi che l’affidamento debba avvenire con gara e non direttamente, per non infrangere i principi comunitari della concorrenza, già enunciati a chiare lettere nella Direttiva unificata sugli appalti di lavori, servizi e forniture n.18 del 2004.
Inoltre, non può essere sottaciuto che tali affidamenti diretti in deroga alla disciplina generale (per la scelta del contraente) secondo l’ultima Direttiva appalti non è praticabile se non per una singola tipologia di affidamento, mettendo in discussione il modello dell’in house providing (in senso stretto) per una chiara incompatibilità sia in materia di concorrenza che in relazione alla procedura dell’evidenza pubblica, consapevoli che allo “stato dell’arte” vi è chi ha sostenuto che “nel caso di una società a capitale interamente pubblico, costituita interamente da comuni, che svolga un servizio pubblico locale, non è configurabile l’esigenza, ricorrente nelle società miste, che la parte pubblica detenga il controllo della società, essendo i comuni tutti tenuti all’osservanza delle medesime norme ed al conseguimento degli stessi obiettivi di pubblico interesse”.
Bisogna tenere conto anche che tutta la riforma dei servizi è contraria alle forme di gestione che non siano avvenute con gara, e consente un regime transitorio con le situazioni esistenti (affidamenti diretti) solamente per periodi limitati in attesa dell’espletamento delle procedure di gara.
Il nodo di questo particolare affidamento (in house), al di là della distinzione tra servizi a rilevanza economica e servizi privi di rilevanza economica, è quello di comprendere se il modello di sviluppo industriale europeo mantenga questo genere di eccezione al principio e al metodo competitivo, se l’obiettivo dell’apertura al mercato possa essere derogato da parte della normativa nazionale in presenza di una gestione precostituita e/o di una disciplina che attraverso la partecipazione e il controllo societario (in mano pubblica) consenta, all’ente di riferimento pubblico, di affidare propri servizi direttamente, privandoli di una reale e vissuta competitività (che va invece praticata)…
Le linee salienti per non volare talmente alto da non vedere l’orizzonte, conducono a trarre qualche conclusione di principio sul modello di affidamento dei servizi pubblici a rilevanza economica (se ancora può avere un senso), e affermare che dal modello costituito dalla legge Giolitti (le municipalizzate), ancora non vi è un vero e proprio modello gestionale (dei servizi pubblici), compatibile con il mercato della concorrenza se il Legislatore nazionale si occupa (ancora) di sanare l’esistenze (gli affidamenti in house o presunti tali) piuttosto che proiettarsi sulla piena liberalizzazione, ponendo ogni operatore (impresa pubblica e/o privata) in competizione per fornire una servizio pubblico moderno e a prezzi contenuti, se non vi è una disciplina generale credibile in grado di superare il giustizio di costituzionalità e resistere efficacemente alle procedure di infrazione proposte dalla Commissione europea (vedi ex articolo 35 della legge finanziaria 2002), se la concorrenza non è ancora riconosciuta come un valore di sviluppo per garantire nel mercato la regolarità, la continuità e la qualità del servizio pubblico, se manca (in verità) una vero sistema di governance.
La strumentalità degli affidamenti in house costituisce un limite alla concorrenza, ma aperta la concorrenza bisogna che il sistema presenti dei margini di controllo e/o bilanciamento dell’ente locale (che rappresenta un territorio e la sua Comunità) affinché non abbandoni il servizio in una sola prospettiva d’impresa, bisogna operare per consolidare la socialità del servizio pubblico e agire sui sistemi di vigilanza, dove l’azionista di riferimento (l’ente territoriale) sia sempre capace di esprimere le istanze locali e possa richiamare (sanzionare efficacemente) il soggetto gestore ai suoi obblighi civici, doveri di solidarietà in primis.
Si dovrà coltivare la cultura aziendale ma non si dovrà perdere la tradizione solidaristica delle municipalizzate, si dovrà agire sullo Statuto societario, sugli atti di conferimento e parasociali, sui contratti di servizio per rendere sempre (e comunque) responsabile di fronte al cittadino colui – società selezionata – intenda gestire un servizio pubblico per un nuovo e più consolidato appeal ideologico – culturale”.