Nella Pubblica Amministrazione (PA), secondo i principi costituzionali dell’art. 97, l’accesso all’impiego si realizza “mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge” (vi sono eccezioni normativamente individuate).
Il precetto nella sua chiarezza espositiva segna un principio generale che, collegato all’art. 3 Cost., impone di effettuare una selezione nella scelta del personale da assumere alle dipendenze della PA: il concorso appare la modalità corretta, senza discriminazione e ponendo tutti nello stesso piano (parità formale, parità sostanziale forse).
A volte, tuttavia, si seguono strade meno impegnative per nominare i vertici amministrativi, si assume attraverso una “call pubblica”, dove l’assunzione avviene attraverso una “procedura informale” basata sulla presentazione delle “manifestazioni di interesse” (il caso analizzato è forse reale ? To be, or not to be, that is the question).
Si manifesta l’interesse, non si partecipa ad un concorso, sarebbe troppo formale e impegnativo, servirebbe troppo tempo, e il tempo è limitato se vi è l’urgente necessità.
La procedura, così congegnata, contempla una prima fase per l’individuazione, sulla base dei curricula, di un numero ristretto di candidati, i quali potranno essere invitati a sostenere un colloquio.
È da capire, quindi, con quale criterio vengano convocati questi “manifestanti” l’interesse; forse estraendo a sorte un numero primo, o forse consultando gli araldi.
Questa ipotetica, Autorità amministrativa, in questa procedura selettiva si riserva, comunque, una valutazione complessiva dei curricula dei candidati, rilevando apertamente senza esitazione, che i requisiti professionali indicati nell’avviso costituiscono, pertanto, elementi di valutazione, ma la loro assenza non è, di per sé, causa di esclusione dalla selezione.
È dire e non dire, lasciando aperta la porta della discrezionalità pura, rasentando, direbbero gli esperti citati, l’arbitrio, ma così non è se la procedura seguita invita a presentare la propria “manifestazione di interesse” a coloro che hanno una comprovata esperienza manageriale, con l’assunzione di responsabilità dirigenziali presso pubbliche amministrazioni o presso enti di diritto privato in controllo pubblico, nonché una solida conoscenza del sistema amministrativo, ai diversi livelli di governo (europeo, nazionale, regionale, locale), e dei principi generali in materia di organizzazione e funzionamento delle pubbliche amministrazioni.
Questa ultima parte denota la componente universale del sapere pubblico, la c.d. globalizzazione.
La manifestazione di interesse andrebbe accompagnata, per la sua validità (sempre nel caso analizzato), da una lettera con la quale sono esplicitate le motivazioni della scelta di partecipazione a tale procedura (ex art. 3 della legge n. 241/1990), accompagnata anche da idee del candidato sulle linee fondamentali per l’esercizio dei compiti da assumere: si tratterebbe di un’autoorganizzazione di tipo manageriale spinta, secondo il modello keynesiano del flusso circolare dell’economia che include i beni tangibili e servizi intangibili (quando è il tempo il vero valore).
L’ampia discrezionalità di una nomina, anche se fiduciaria, non implica, invero, che l’azione amministrativa possa ritenersi svincolata dal rispetto dei principi di imparzialità, buon andamento e del giusto procedimento, discendenti dagli artt. 97 e 113 della Costituzione (Corte Cost., 25 febbraio 2014, n. 27; idem sentenze n. 34/2010 e n. 390/2008).
Sicché, il principio di “imparzialità” (nella Repubblica Italiana) si riflette immediatamente in altre norme costituzionali, quali l’art. 51 (tutti i cittadini possono accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge) e l’art. 98 (i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione) della Costituzione, attraverso cui si mira a garantire l’amministrazione pubblica e i suoi dipendenti da influenze politiche o, comunque, di parte, in relazione al complesso delle fasi concernenti l’impiego pubblico (Corte Cost., sentenza n. 333/1993).
Risulta, hic et nunc, di immediata percezione che il carattere indubbiamente fiduciario delle nomine non può debordare nell’arbitrio ma deve comunque corrispondere a dei canoni sindacabili dal giudice di ragionevolezza e buona amministrazione (Corte Conti, sez. giur. Lombardia, 8 luglio 2015, n. 142).
Tutte queste suggestioni sono ancorate a regole procedurali a garanzia dell’imparzialità, ove la nomina, anche di un segretario/consulente particolare o di gabinetto, non dovrebbe avvenire nell’oscurità degli ambienti protetti, dovrebbe seguire il cammino di una procedura in “Amministrazione Trasparente” (modello c.d. FOIA).
Senza voler riesumare la c.d. “Italietta” di Giolitti, tanto decantata dal Salvemini, volendo osservare gli osservatori sollecitati dai fatti di cronaca sulle regole di selezione della classe dirigente pubblica, e – più in generale – della baluginata classe dirigente del Paese, sull’esigenza di stabilire delle procedure trasparenti e comparative, senza chiamate dirette di natura fiduciaria, per non alterare i principi costituzionali di imparzialità e buon andamento, e non ricadere per poi rialzarsi (e inaspettatamente prendere le distanze dal nominato) sarebbe indispensabile – più che scrivere norme e scandalizzarsi – investire in cultura e riaffermare i valori etici che appartengono a tutte quelle persone – dipendenti pubblici e pubblici amministratori – che quotidianamente servono onestamente e diligentemente la Nazione.
Tali servitori della Patria operano sommersi dalla cultura dell’adempimento (il c.d. governo dei burocrati, incomprensibile ai più e a loro stessi), in un contesto normativo ipertrofico, contraddittorio, oscuro, di non facile comprensione.
Dipendenti pubblici coinvolti nella sistematica compilazione di questionari, prospetti, tabelle e nell’adozione di piani (solo per citarne alcuni presenti nelle Autonomie Locali, triennale della performance, del personale da assumere e delle eccedenze, degli incarichi e delle consulenze, della corruzione e della trasparenza, dei lavori servizi e forniture, delle azioni positive, della comunicazione, della formazione, dell’informatica, dei controlli, del monitoraggio, dei pagamenti, degli indicatori di bilancio, delle partecipate, del bilancio e del consuntivo, della sicurezza informatica e dei luoghi di lavoro, del traffico, del rumore, del consumo energetico e dell’illuminazione, dell’assetto del territorio, del bilancio arboreo, dei rifiuti, dei consumi, del sistema idrogeologico, delle frane, del colore degli edifici, della sicurezza, dell’arredo e dei mobili, delle spese di rappresentanza, delle ferie) in funzione di un processo costante di riforma delle riforme riformate, di semplificazione amministrativa della semplificazione.
Assistiamo a processi e a procedimenti che coprono ormai oltre un cinquantennio di riforme incompiute o inconcludenti: ed ora (today) si ricomincia – ancora una volta – con gli echi delle riforme, partendo dalla dirigenza: aliena vitia in oculis habemus, a tergo nostra sunt (Seneca).
Dirigenti valutati sul merito, sui risultati, sulle capacità di fare, creando – ancora una volta – un nuovo sistema della performance per premiare i migliori, dimenticando la marea di leggi, di norme, di codicilli che occupano tempo, limitano l’azione, creano incertezze, dislocano le responsabilità e rendono il sistema corrotto (in un’accezione più ampia, coerente con la sua derivazione etimologica dal latino “corrumpere” (mandare in mille pezzi, rompere del tutto, rovinare), 68ª Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana, riunita nell’Aula del Sinodo della Città del Vaticano da lunedì 18 a giovedì 21 maggio 2015).
In questa oscurità di valori, si potrebbe celebrare, invocando lo spoils system (per sostituire coloro che sarebbero compromessi da precedenti rapporti), la presentazione di una schiera di soggetti compiacenti, di dirigenti intuitu personae, di collaboratori di fiducia, che – con poteri salvifici – si presentano alla porta del tempio, sottoscrivendo incarichi ad personam: tali professionisti medierebbero sempre, troverebbero soluzioni possibili, sarebbero commensali abituali, penserebbero agli amici, assicurerebbero e lascerebbero tranquilli chi conta, sorriderebbero sempre e porgerebbero la mano.
Ma questo concetto di “fiducia” non si potrebbe regimentare nella Pubblica Amministrazione, la fiducia è una cosa seria: «chi subisce l’ingiustizia e si convince che il mondo va così non solo diventa complice degli oppressori, ma soprattutto nega gli altri, a partire dalle nuove generazioni, un indispensabile riferimento di speranza per quel cambiamento che, in effetti, resta pur sempre possibile» (MANCINI, Per un’altra politica, Assisi, 2010).