Va preliminarmente precisato che anche qualora la partecipazione azionaria del Comune si presenti al 100% gli Amministratori della società, nell’ambito della loro competenza generale, ex artt. 2380 – bis c.c., hanno la gestione esclusiva dell’impresa e compiono tutte le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale.
All’interno di tali poteri, rientra sicuramente, la facoltà di difendere gli interessi sociali in giudizio, qualora tali interessi siano compromessi da atti o provvedimenti lesivi proveniente dal socio unico pubblico, poiché la società per azioni con socio unico resta in ogni caso un soggetto formalmente distinto dal suo socio, e dato che il socio unico (caso di specie Comune) ha emesso i suoi provvedimenti non all’interno degli schemi societari,ma in quanto soggetto pubblico che cura i suoi interessi istituzionali, non si pone dunque alcun problema di legittimazione attiva a proporre un’eventuale azione a tutela della società stessa, dovendo verificare concretamente l’ammissibilità dell’azione sotto il profilo afferente alla sussistenza dell’interesse ad agire da parte della società partecipata al 100% dal socio contro il quale agisce.
Tale considerazione si proietta sulla necessità di acquisire, in via preventiva (da parte dell’Ente partecipante, colui che detiene la quota societaria), apposito mandato (delega di poteri, o più coerentemente autorizzazione preventiva, idonea a legittimare l’esercizio di un potere in capo all’Ente locale) per porre in essere (all’interno dell’Assemblea) le decisioni imputabili all’Ente stesso, non potendo esercitare i compiti dispositivi senza una deliberazione autorizzatoria.
In termini diversi, qualora il Socio pubblico provveda a definire attività e servizi da porre in capo alla società, con connessi riflessi economici sul bilancio dell’Ente, è indispensabile trovare idonea copertura finanziaria non potendo ritenere legittimo sul piano amministrativo dell’Ente socio una eventuale assunzione di attività e servizi in assenza di un atto amministrativo che copra la spesa (il trasferimento di risorse) e, a maggior ragione, in assenza di un contratto di servizio che ne disciplini i rapporti (contratto di servizio approvato dall’Ente socio: competenza del consiglio comunale).
Va poi rammentato che le società affidatarie in house (longa manus degli enti proprietari) sono:
a. assoggettate al patto di stabilità interno, secondo le modalità definite dal decreto ministeriale previsto dall’articolo 18, comma 2 bis, del Decreto – Legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla Legge 6 agosto 2008, n. 133, e successive modificazioni (l’Ente locale vigila sull’osservanza da parte delle società dei vincoli derivanti dal patto di stabilità interno);
b. sono tenute all’acquisto di beni e servizi secondo le disposizioni di cui al Decreto Legislativo 12 aprile 2006, n. 163, e successive modificazioni.
c. adottano, con propri provvedimenti, criteri e modalità per il reclutamento del personale e per il conferimento degli incarichi nel rispetto dei principi di cui al comma 3 dell’articolo 35 del Decreto Legislativo 30 marzo 2001, n. 165, nonché delle disposizioni che stabiliscono a carico degli enti locali divieti o limitazioni alle assunzioni di personale, contenimento degli oneri contrattuali e delle altre voci di natura retributiva o indennitarie e per le consulenze anche degli amministratori.
La società in house qualora intenda proclamarsi come società patrimoniale strumentale (e quindi con la possibilità di acquisire affidamenti diretti nei limiti indicati dall’articolo 4, commi 1 ss. e 13 ss. del Decreto – Legge n. 138/2011 convertito in Legge n. 148/2011) dovrà contenere nello statuto un oggetto esclusivo non potendo, da una parte, svolgere attività a favore dell’Ente proprietario e, dall’altra, svolgere servizio pubblici a favore della collettività.
È noto che il requisito della strumentalità sussiste allorquando l’attività posta in essere dalla società sia rivolta agli stessi enti promotori o, comunque, azionisti della società per svolgere le funzioni di supporto di tali amministrazioni pubbliche, secondo l’ordinamento amministrativo e per il perseguimento dei loro fini istituzionali.
Accanto a questi limiti oggettivi di legge dovrà dimostrare (sempre a livello statutario o mediante appositi atti precettivi) la presenza del c.d. controllo analogo.
Occorre preliminarmente ribadire che la figura dell’in house providing si configura come un modello eccezionale, i cui requisiti vanno interpretati con rigore, poiché costituiscono una deroga alle regole generali del diritto comunitario imperniate sul modello della competizione aperta.
Nel caso di in house providing, in particolare, il requisito del “controllo analogo”, idoneo ad escludere la sostanziale terzietà dell’affidatario domestico rispetto al soggetto affidante, è da ritenersi sussistente solo in presenza di un potere assoluto di direzione, coordinamento e supervisione dell’attività del soggetto partecipato da parte dell’ente controllante – affidante, che consenta cioè a quest’ultimo di dettare le linee strategiche e di influire in modo effettivo ed immediato sulle decisioni dell’affidatario.
Il requisito del “controllo analogo” postula un rapporto che lega gli organi societari della società affidataria con l’ente pubblico affidante (socio unico), in modo che quest’ultimo sia in grado, con strumenti pubblicistici o con mezzi societari di derivazione privatistica, di indirizzare “tutta” l’attività sociale attraverso gli strumenti previsti dall’ordinamento.
Il controllo analogo presuppone:
a. il possesso dell’intero capitale azionario;
b. il controllo del bilancio;
c. il controllo sulla qualità dell’amministrazione;
d. la spettanza di poteri ispettivi, diretti e concreti, sino a giungere al potere del controllante di visitare i luoghi di produzione;
e. la totale dipendenza dall’affidatario diretto, in tema di strategie e politiche aziendali;
A tal fine, pertanto, si rende necessaria la predisposizione di strumenti di vigilanza e controllo più incisivi di quelli previsti dal diritto societario, come ad esempio un ufficio di interfaccia ad hoc.
Inoltre, quanto al possesso totale della mano pubblica, occorre che lo statuto dell’affidatario diretto non preveda la cessione, anche solo di parte, del capitale azionario a futuri soci privati.
Deve trattarsi di una relazione equivalente, ai fini degli effetti pratici – pur se non identica in ragione della diversità del modulo organizzatorio – ad una relazione di subordinazione gerarchica, che si verifica quando sussiste un controllo gestionale e finanziario stringente dell’ente pubblico con la società in house con la tipizzazione dei poteri esercitati.
Questa circostanza conferma quanto affermato supra dovendo il socio unico in sede di assemblea essere autorizzato dall’Ente affidatario (a seconda della competenza: Sindaco, Giunta o Consiglio) prima di dar corso alle determinazioni poste all’ordine del giorno in considerazione del fatto che deve essere dimostrato un reale potere di ingerenza e condizionamento da parte dell’Ente affidante rispetto alle scelte gestionali della sua partecipata, con correlativa presenza di un controllo finanziario stringente dell’Ente pubblico sul soggetto societario.
Sono queste ragioni di “predeterminatezza” che impediscono al consiglio di amministrazione della società in house di avere rilevanti poteri gestionali atteso che l’Ente pubblico affidante esercita, pur se con moduli societari su base statutaria, poteri di ingerenza e di condizionamento superiori a quelli tipici del diritto societario, caratterizzati da un margine di rilevante autonomia della governance rispetto alla maggioranza azionaria (se non totalitaria posseduta dall’ente affidante), pertanto, è indispensabile che le decisioni più importanti siano sempre sottoposte al vaglio preventivo dell’Ente affidante che si deve esprimere attraverso atti scritti.
(estratto LexItalia, 2012, n.6)