La disciplina dei servizi pubblici locali è una materia in continua evoluzione nel tentativo (del Legislatore) di garantire la concorrenza (e l’apertura del mercato) e assicurare standard di qualità delle prestazioni erogate, differenziando gli operatori (imprenditori o società) in funzione del perseguimento di un interesse economico o di una finalità collettiva.
Con il passare degli anni si è cercato di distinguere gli affidamenti con gara da quelli diretti (riformando l’art.113 del Tuel), imponendo delle limitazioni per tutti i soggetti che beneficiavano di diritti di esclusiva rispetto a coloro che entravano nel marcato, creando una ulteriore separazione tra le società di servizi e quelle strumentali alle esigenze dell’amministrazione procedente, giungendo ad impedire sia la costituzione di nuove partecipate che il mantenimento di quote azionarie.
È opportuno evidenziare che allorquando l’attività che le società sono chiamate a svolgere sia rivolta agli stessi enti promotori o comunque azionisti della società, per svolgere le funzioni di supporto di tali amministrazioni pubbliche di cui resta titolare l’ente di riferimento e con i quali lo stesso ente provvede al perseguimento dei suoi fini istituzionali, siamo in presenza di società strumentali.
La natura strumentale a beneficio dell’amministrazione e la deroga alle ordinarie procedure di affidamento (affidamento in house) comporta che tali società non possano svolgere, in relazione alla loro posizione privilegiata, altre attività a beneficio di diversi soggetti pubblici o privati poiché in caso contrario si verificherebbe un’alterazione o comunque una distorsione della concorrenza all’interno del mercato locale di riferimento.
È in tale ottica che si giustifica, del resto, la previsione di cui al secondo comma dell’art. 13 del D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito dalla Legge 4 agosto 2006, n. 248, che impone che gli enti locali prevedano per le società strumentali un oggetto sociale esclusivo: un vero e proprio vincolo di esclusività e non di “semplice” prevalenza, attraverso il rigido divieto di svolgere prestazioni a favore di soggetti pubblici e privati diversi dagli enti costituenti ed affidanti (e l’obbligo di cessare entro ventiquattro mesi le attività non più consentite).
Allo stesso tempo non va sottaciuto che la definizione di servizi pubblici a rilevanza economica (rispetto alla precedente qualificazione “a rilevanza industriale”) si pone come punto d’arrivo di un tracciato giuridico – concettuale che fornisce una nozione contenutistica del servizio pubblico, inteso come produzione di beni ed attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali.
Il mutamento della denominazione (in origine) tendeva a ricondurre il servizio pubblico su un piano di reale competitività, distinta dalla sua manifestazione pubblicistica e strumentale alla potestà autoritativa dell’ente pubblico di riferimento, in un sincero tentativo di liberalizzazione del sistema a vantaggio dell’utente, degli investimenti strutturali e del miglioramento oggettivo del servizio, all’abbassamento dei costi e alla regolamentazione delle tariffe, perdendo parte di questa originaria socialità che ha portato l’ente locale a produrre servizi di pubblica utilità a beneficio di tutta la Comunità, favorendo concretamente l’utilitas pubblica, differenziando così l’ambito dell’intervento: una parte, privilegiando gli utili d’impresa (ex art.113 del Tuel), l’altra, la socialità – solidarietà (ex art.113 bis) dove l’utile non rappresenta lo scopo principale del servizio, come dovrebbe essere in concreto.
È evidente che il servizio pubblico è di tipo economico quando l’aspetto monetario sia determinante nella gestione del servizio, quando cioè l’organizzazione del servizio avviene con modalità di tipo imprenditoriale (o societario) e il profitto aziendale è tra gli obiettivi primari di bilancio, ovvero quando l’attività del servizio sia orientata a contenere i costi massimizzando gli utili, per un aumento dei ricavi oltre alla remunerazione del capitale investito a vantaggio della proprietà azionaria, mentre il servizio è privo di tale rilevanza economica quando non proietta l’attività aziendale al solo guadagno o al solo lucro ma al servizio in sé.
Nella prassi comunitaria, l’espressione “servizi di interesse economico generale” si riferisce a servizi di natura economica che, in virtù di un criterio di interesse generale, gli Stati membri o la Comunità assoggettano a specifici obblighi di servizio pubblico (e riguarda, in particolare, alcuni servizi forniti dalle grandi industrie di rete quali i trasporti, i servizi postali, l’energia e la comunicazione; tuttavia, il termine si estende anche a qualsiasi altra attività economica soggetta ad obblighi di servizio pubblico).
È da precisare che il termine “servizio pubblico” – in ambito comunitario – ha contorni meno netti e tende a riferirsi al fatto che un servizio è offerto alla collettività, o è stato attribuito un ruolo specifico nell’interesse pubblico, o è riferito alla proprietà o allo status dell’ente che presta il servizio.
Il servizio di interesse “economico” generale è riconduce quei servizi che, sin dagli anni ’80, la Comunità ha puntato alla graduale apertura dei mercati per le grandi industrie di rete delle telecomunicazioni, dei servizi postali, dell’elettricità, dei gas e dei trasporti, dei rifiuti, dell’approvvigionamento idrico, includendo quelli che rivestono un carattere di servizio universale per i diritti dei consumatori e degli utenti (la sanità e la sicurezza).
Delineate le coordinate rilevanti nella fattispecie si può riferire che la natura di servizio pubblico locale va accordata a quelle attività che sono destinate a rendere un’utilità immediatamente percepibile ai singoli o all’utenza complessivamente considerata, che ne sopporta i costi direttamente, mediante pagamento di apposita tariffa, all’interno di un rapporto trilaterale, con assunzione del rischio di impresa a carico del gestore.
Si postula in sostanza quale requisito essenziale della nozione di servizio pubblico locale che il singolo o la collettività abbiano a ricevere un vantaggio diretto e non mediato da un certo servizio, escludendosi, di conseguenza, che ricorre sevizio pubblico a fronte di prestazioni strumentali a far sì che un’amministrazione direttamente o indirettamente, possa poi provvedere ad erogare una determinata attività.
L’impianto generale tende a ridurre l’operatività di soggetti che per la presenza diretta o mediata della mano pubblica finiscono in sostanza con l’eludere il rischio d’impresa, ovvero impedire la creazione di società senza una effettiva (prodromica) valutazione dei costi – benefici (utilizzando, a volte, tale meccanismo per eludere le normative pubblicistiche in tema di finanza pubblica e contratti che disciplinano l’attività dell’amministrazione e, in alcuni casi, creando artificiosamente posizioni destinate ad alimentare un sottogoverno locale e creare posti di lavoro) e ad arginare il sempre più frequente abuso di forme privatistiche da parte delle pubbliche amministrazioni, a causa del quale queste risultano presenti in settori assolutamente estranei al loro scopo istituzionale, alterando la concorrenza e il mercato.
La sezione di regionale di controllo per il Veneto della Corti dei Conti, con parere numero 74 del 17 gennaio 2012, interviene per distinguere un aspetto strategico nella gestione dei servizi pubblici locali, ribadendo la presenza di un limite ontologico tra società di servizi pubblici e società strumentali non potendo coesistere, all’interno di un medesimo assetto societario, attività a favore della collettività e a beneficio dell’ente socio.
La Corte si sofferma:
sulle modalità di costituzione della società e sui limiti demografici alla costituzione (comuni con popolazione fino o superiore a 30.000 abitanti, e quelle comprese tra 30.000 e 50.000);
sugli obblighi imposti ai fini di accertare il perseguimento delle finalità istituzionali attraverso lo strumento societario;
sugli obblighi di liquidazione, entro il 31 dicembre 2012, delle società già costituite non in linea con le disposizioni della legge finanziaria 2010 e legge di stabilità 2011 (a meno che: a. abbiano, al 31 dicembre 2012, il bilancio in utile negli ultimi tre esercizi; b. non abbiano subito nei precedenti esercizi, riduzioni di capitali conseguenti a perdite di bilancio; c. non abbiano subito, nei precedenti esercizi, perdite di bilancio in conseguenza delle quali il comune sia stato gravato dell’obbligo di procedere al ripiano delle perdite medesime).
Su queste premesse normative, la Corte passa ad analizzare l’ambito applicativo (limiti quantitativi) delle dismissioni richiamandosi ad un precedente che trova applicazione per tutte le società partecipate, indipendentemente dai settori di intervento, ovvero alla circostanza che esse abbiano proceduto all’emissione di strumenti finanziari quotati su mercati regolamentati: sussiste un espresso divieto di costituzione di società partecipate ai Comuni sotto i 30.000 abitanti, ma la partecipazione societaria potrà, comunque, essere acquisita anche nel caso di attività non strettamente necessarie al perseguimento dei fini istituzionali dell’Ente, qualora si tratti di servizi di interesse generale, che presentino un favorevole impatto sulla collettività locale (art. 3, comma 27 della Legge 24 dicembre 2007, n. 244).
In altri termini, il carattere assorbente del soddisfacimento dello interesse generale, tipico delle società erogatrici di servizi pubblici, opera quale presupposto per la non applicabilità del divieto posto dalla norma della Legge n. 122/2010, con la conseguenza immediata che l’accertamento della predetta finalità è espressamente demandato all’ente che deve effettuare questa verifica prima di procedere alla costituzione della società (art. 3, comma 28 della Legge n. 244 del 2007).
Il Legislatore ha inteso porre una stretta correlazione fra finalità proprie dell’ente pubblico e utilizzo dello strumento societario, legittimando e circoscrivendo, allo stesso tempo, il ricorso alla modalità societaria per lo svolgimento di attività di competenza dell’ente, peraltro lo svolgimento dell’attività amministrativa in forma societaria è tipica espressione di scelta discrezionale che, nel richiamato contesto normativo, deve essere sorretta da adeguata ponderazione degli interessi, anche economici, che inducono l’ente locale ad esternalizzare una funzione propria.
In base alle norme contenute nella finanziaria per il 2008, la possibilità di ricorrere allo strumento societario dipende dalle finalità che l’ente si propone di raggiungere con la partecipazione azionaria, in relazione ai compiti che l’ordinamento riserva a ciascun ente.
Rientra nella disponibilità di ogni singolo ente valutare quali siano le necessità della comunità locale e, nell’ambito delle compatibilità finanziarie e gestionali, avviare le “politiche” necessarie per soddisfarle.
Da queste premesse, si giunge a stabilire che sussiste un obbligo – non derogabile – per gli enti locali con popolazione inferiore a 30.000 abitanti, di porre in liquidazione le società già costituite, ove la partecipazione sia totalitaria, ovvero di cedere le quote sociali; e tali argomentazioni, osserva la Corte, vengono confermate nel recente D.L. n. 138/2011, convertito dalla Legge n.148/2011, in materia di affidamento di servizi pubblici a rilevanza economica ed in particolare, nell’art. 4, comma 32, che fa espressamente salve le previsioni di cui all’art 14, comma 32 del D.L. n. 78/2010 (convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 122/2010 e successive modifiche).
Il quadro delineato conduce la Sezione ad affermare che i soci che detengono partecipazioni in società (alle quali siano state affidate contemporaneamente attività riconducibili a servizi strumentali ed attività riconducibili a servizi pubblici locali a rilevanza economica), se non hanno ancora provveduto ad eliminare l’anomalia, debbano provvedere alla loro liquidazione, anche per evitare di incorrere nelle specifiche violazioni previste dallo stesso art. 13 della Legge n. 248/2006, che sanziona con la nullità i contratti relativi ai servizi strumentali gestiti impropriamente da una società affidataria.
La società partecipata dall’ente locale non può essere affidataria (e soggetto gestore) di servizi pubblici locali e, insieme, di servizi strumentali, dovendosi separare necessariamente, dal punto di vista funzionale ed organizzativo, la gestione dei servizi pubblici locali e quella dei servizi strumentali.
Inoltre, viene richiamato, il principio secondo il quale l’ambito di operatività delle società strumentali è necessariamente limitato e circoscritto allo svolgimento di attività in favore dell’ente locale che le ha costituite.
Una volta precluso, infatti, in base alla previsione legislativa lo svolgimento di attività strumentali per il tramite di società che non siano ad oggetto esclusivo (non essendo quindi possibile che la stessa società che opera in house svolga per conto di uno o più enti attività strumentali e gestisca servizi pubblici locali), l’ente locale potrà, se del caso, riportare la gestione del servizio pubblico locale non strumentale all’interno dell’ente locale, per poi successivamente affidarlo secondo le modalità previste dalla vigente disciplina di settore.
Risulta inequivocabile la incompatibilità fra la gestione di attività strumentali che vedono quale destinatario ed interlocutore l’ente locale e le attività a rilevanza economica che presentano un’incidenza sul mercato (sia pure locale).
(estratto da La gazzetta degli enti locali, 21 febbraio 2012)