Le spese di rappresentanza, secondo i principi ed i criteri elaborati dalla giurisprudenza contabile, devono porsi in stretta correlazione con le finalità istituzionali, con la sussistenza di elementi che richiedano una proiezione esterna delle attività dell’Ente per il migliore perseguimento dei propri fini istituzionali.
Dal punto di vista definitorio, la nozione di “spesa di rappresentanza” si configura quale voce di costo essenzialmente finalizzata ad accrescere il prestigio e la reputazione della singola pubblica amministrazione verso l’esterno.
L’erogazione di tali spese esigono un apporto motivazionale (ex art. 3 della Legge n. 241/1990) rigoroso circa lo specifico interesse istituzionale perseguito, oltre alla dimostrazione del rapporto tra l’attività dell’Ente e la spesa erogata, nonché alla qualificazione del soggetto destinatario della spesa ed alla rispondenza a criteri di ragionevolezza e di congruità rispetto ai fini.
L’art. 16, comma 26, del D.L. n. 138/2011, convertito con Legge n. 148/2011, ha stabilito che le spese di rappresentanza sostenute dagli organi di governo degli Enti locali sono elencate, per ciascun anno, in apposito prospetto allegato al rendiconto, di cui all’articolo 227 del D.Lgs. n. 267/2000 (TUEL) e che tale prospetto è trasmesso alla sezione regionale di controllo della Corte dei Conti ed è pubblicato, entro dieci giorni dall’approvazione del rendiconto, nel sito internet dell’Ente locale.
In maggior dettaglio, nell’autodeterminare i criteri direttivi per le spese di rappresentanza, sono stati individuati i seguenti principi:
1) ciascun Ente deve inserire, nell’ambito della programmazione di bilancio, apposito capitolo in cui vengono individuate le risorse destinate all’attività di rappresentanza, nel rispetto dei vincoli di finanza pubblica fissati dal legislatore;
2) esulano dall’attività di rappresentanza quelle spese che non siano strettamente finalizzate a mantenere o accrescere il prestigio dell’Ente verso l’esterno, nel rispetto della diretta inerenza ai propri fini istituzionali;
3) non hanno finalità rappresentative verso l’esterno le spese destinate a beneficio dei dipendenti o amministratori appartenenti all’Ente che le dispongono;
4) le spese di rappresentanza devono essere congrue rispetto ai valori economici di mercato ed alle finalità per le quali vengono erogate;
5) l’attività di rappresentanza non deve porsi in contrasto con i principi di imparzialità e di buon andamento, di cui all’art. 97 della Costituzione.
Non pare inutile ricordare che l’art. 97 della Carta Costituzionale impone come imprescindibile modo di essere dell’azione amministrativa una gestione diligente e accorta (bonus pater familias, ex art. 1176 c.c.), rispondente ai canoni di efficacia, efficienza ed economicità, traslati nell’art. 1, comma 1, della Legge n. 241 del 1990, che costituiscono requisiti giuridici la cui violazione determina un vizio di legittimità.
Peraltro, vi è da dire che le spese di rappresentanza devono essere preventivamente autorizzate, atteso che le procedure di autorizzazione, lungi dall’avere mera valenza formale, sono preordinate al fine di assicurare una preventiva valutazione delle ragioni, delle priorità e della necessità istituzionali, al fine di evidenziare i motivi di giustificazione delle uscite monetarie, in concreta attuazione dei principi di trasparenza, economicità, efficacia ed efficienza dell’azione amministrativa.
Nell’attuale contesto congiunturale di coordinamento della finanza pubblica e di crisi economica, le spese di rappresentanza, in quanto non necessarie, sono da considerarsi come recessive rispetto ad altre voci di spesa pubblica, in questo senso, si richiama l’art. 6 comma 8 del D.L. 31 maggio 2010, n. 78, convertito con modificazioni nella Legge 30 luglio 2010, n. 122.
Alla luce delle considerazioni esposte, le spese di rappresentanza devono rivestire il carattere dell’inerenza, nel senso che devono essere strettamente connesse con il fine di mantenere o accrescere il ruolo, il decoro e il prestigio dell’ente medesimo, nonché possedere il crisma dell’ufficialità, nel senso che esse finanziano manifestazioni della pubblica amministrazione idonee ad attrarre l’attenzione di ambienti qualificati o dei cittadini amministrati al fine di ricavare i vantaggi correlati alla conoscenza dell’attività amministrativa.
Sotto il profilo gestionale, l’economicità e l’efficienza dell’azione della pubblica amministrazione impongono il carattere della sobrietà e della congruità della spesa di rappresentanza, sia rispetto al singolo evento finanziato, sia rispetto alle dimensioni e ai vincoli di bilancio dell’Ente locale che le sostiene.
Di talché spetta alla singola Amministrazione accertare che l’attività di rappresentanza ricorra in ogni manifestazione ufficiale attraverso gli organi muniti, per legge o per statuto, del potere di spendita del nome della pubblica amministrazione di riferimento.
La violazione dei criteri finalistici evidenziati conduce all’illegittimità della spesa sostenuta dall’Ente per finalità che fuoriescono dalla rappresentanza, violando i criteri che presiedono alla sana gestione finanziaria con il venir meno dei requisiti di razionalità ed economicità, cui l’attività amministrativa deve sempre tendere al buon andamento (ex art. 97 Cost.), in quanto se sostenute sine titulo costituiscono danno ingiusto per l’ente.
Ciò posto, la Corte dei Conti, sezione controllo per la Lombardia, con determinazione n. 31 del 3 febbraio 2016, interviene per stabilire la non conformità delle spese di rappresentanza sostenute da un comune per il pagamento dell’“Iscrizione annua all’Ordine dei giornalisti” di un proprio amministratore (caso di specie, il sindaco).
Il Collegio osserva che tale spesa non possa essere ricondotta alle “spese di rappresentanza” sotto due diversi profili:
- errata imputazione della spesa (non è una spesa di rappresentanza);
- erronea sostenibilità nel merito della spesa (non è una spesa a carico del bilancio comunale).
(ESTRATTO, Spese di comunicazione e iscrizione albo giornalisti, Comuni d’Italia, 2016, n.2)