La seconda sez. Bari del T.A.R. Puglia, con la sentenza 4 maggio 2020, n. 609, interviene per delineare i confini dell’abitabilità di un bene rispetto ad una ordinanza sindacale (ex art. 54 TUEL) di sospensione dall’utilizzo fino alla messa in sicurezza da parte dei soggetti preposti (tecnici e impresa).
Va premesso che l’agibilità dei manufatti oppure di locali, dove s’intende abitare o svolgere un’attività commerciale, rappresenta il necessario ponte di collegamento fra la situazione urbanistico – edilizia e quella di destinazione del bene, nel senso che la non conformità dei locali per il versante urbanistico – edilizio si traduce nella non agibilità dei predetti manufatti o locali sul piano abitativo o commerciale[1].
All’inverso, ai fini dell’agibilità, è necessario che il bene o il locale sia assistito dallo specifico titolo edilizio abilitativo e, più in generale, che lo stesso non rivesta carattere abusivo, esigendosi, in tal modo, una corrispondenza biunivoca tra conformità urbanistica dei beni ospitanti l’uso abitativo o l’attività commerciale e l’agibilità degli stessi[2].
Invero, il permesso di costruire ed il certificato di agibilità sono collegati a presupposti diversi, non sovrapponibili fra loro, in quanto:
- il certificato di agibilità ha la funzione di accertare che l’immobile sia stato realizzato secondo le norme tecniche vigenti in materia di sicurezza, salubrità, igiene, risparmio energetico degli edifici e degli impianti;
- il titolo edilizio è finalizzato all’accertamento del rispetto delle norme edilizie ed urbanistiche[3].
Il rilascio del certificato di abitabilità (o di agibilità) non preclude, altresì, agli uffici comunali la possibilità di contestare successivamente la presenza di difformità rispetto al titolo edilizio, né costituisce rinuncia implicita a esigere il pagamento dell’oblazione per il caso di sanatoria, in quanto il certificato svolge una diversa funzione, ossia garantisce che l’edificio sia idoneo ad essere utilizzato per le destinazioni ammissibili.
Ciò posto, la questione sorge dalla richiesta di annullamento di un’ordinanza contingibile e urgente con la quale il Sindaco ordinava ad un proprietario di provvedere immediatamente a mantenere circoscritto ogni accesso al proprio immobile, dichiarato “momentaneamente non fruibile” (a seguito di un incendio) in attesa delle opere di messa in sicurezza.
La questione verte sull’agibilità del bene e sui poteri di ordinanza del Sindaco di inibirne l’accesso, rilevando subito che tale dichiarazione non può prescindere da un’attività istruttoria: l’art. 222 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265 stabilisce, infatti, che «il podestà (ora il sindaco), sentito l’ufficiale sanitario o su richiesta del medico provinciale, può dichiarare inabitabile una casa o parte di essa per ragioni igieniche e ordinarne lo sgombero», esigendo, quindi, un preventivo parere dell’Autorità sanitaria.
Si conviene che tra gli strumenti tipizzati dal diritto positivo, il Sindaco può dichiarare inabitabile una casa o parte di essa, da considerarsi non confinata ai soli edifici ab origine destinati all’uso abitativo, ma estesa a qualsiasi edificio o manufatto cui sia stata impressa quella destinazione (anche di fatto), per ragioni igieniche e ordinarne lo sgombero.
In presenza di una precisa norma giuridica per far fronte ad una situazione di pericolo afferente all’inagibilità di un bene (ovvero, quella dell’art. 222 cit.), l’Amministrazione (ergo il Sindaco) non può avvalersi di poteri non tipicizzati, ancorché d’urgenza, quali quelli extra ordinem atipici e sussidiari disciplinati dall’art. 54 comma 2 del d.lgs. n. 267/2000 (TUEL).
Dunque, anche quando non siamo in presenza di immobili ad uso abitativo (“case”), ma di ripari di fortuna, la disciplina del testo unico delle leggi sanitarie sarebbe risultata applicabile, atteso che il potere di sgombero – sancito dall’art. 222 cit. – a presidio dell’igiene non opera soltanto degli aggregati urbani e rurali nel loro complesso, ma riguarda qualsiasi edificio o manufatto cui sia stata impressa quella destinazione, anche di fatto[4].
Serve, sia ai sensi dell’art. 26 «Dichiarazione di inagibilità» del d.P.R. n. 380/2001 che dell’art. 222 del r.d. n.1265/1934, un previo «parere dell’ufficiale sanitario»[5] prima di procedere con «l’esercizio del potere di dichiarazione di inagibilità di un edificio o di parte di esso».
Con la legge 23 dicembre 1978, n. 833, istitutiva del servizio sanitario nazionale, «il Ministro della sanità può emettere ordinanze di carattere contingibile e urgente, in materia di igiene e sanità pubblica e di polizia veterinaria, con efficacia estesa all’intero territorio nazionale o a parte di esso comprendente più regioni… Nelle medesime materie sono emesse dal presidente della giunta regionale e dal sindaco ordinanze di carattere contingibile ed urgente, con efficacia estesa rispettivamente alla regione o a parte del suo territorio comprendente più comuni e al territorio comunale».
In sede di recepimento, a cura della legge regionale, si stabilisce che «in materia di igiene e sanità pubblica il Sindaco adotta i provvedimenti autorizzativi, prescrittivi e di concessione, ivi compresi quelli già demandati al Medico provinciale e all’Ufficiale sanitario ed emana le ordinanze contingibili e urgenti. L’attività istruttoria, tecnica e amministrativa è espletata dal Servizio di igiene e sanità pubblica dell’Unità sanitaria locale».
Il quadro delineato, anche rapportandosi alla disciplina regionale, impone di affermare che il riferimento dell’art. 222 del regio decreto n. 1265/1934 (mai espressamente abrogato o modificato) il parere dell’“ufficiale sanitario” (“sentito l’ufficiale sanitario”) debba essere inteso nel senso della necessità della previa acquisizione del parere del responsabile del Servizio di igiene pubblica dell’Unità sanitaria locale competente, in mancanza del quale l’atto sindacale risulta viziato.
La norma dell’art. 26 del d.P.R. n. 380/2001 che – anche dopo la novella di cui al decreto legislativo n. 222/2016 – continua a fare espressamente salvo il potere di dichiarazione di inagibilità di un edificio o di parte di esso, ai sensi dell’art. 222 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265, debba essere inteso nel senso che il Sindaco, sentito il responsabile del Servizio di igiene pubblica dell’Unità sanitaria locale o su richiesta di quest’ultimo, può dichiarare inabitabile una casa o parte di essa per ragioni igieniche e ordinarne lo sgombero.
Le considerazioni che precedono portano all’accoglimento del ricorso, all’annullamento dell’ordinanza, alla condanna alle spese: l’ordinanza non poteva rientrare tra i poteri atipici extra ordinem, di cui all’art. 54 del decreto legislativo n. 267/2000[6], ed – in ogni caso – si esigeva la procedura – tuttora vigente – dell’art. 222 del regio decreto n. 1265/1934 in tema di potere del Sindaco di dichiarare l’immobile inabitabile ordinandone lo sgombero, previa adeguata istruttoria consistente nell’acquisizione del prescritto parere del responsabile del Servizio di igiene pubblica dell’Unità sanitaria locale, anche ai sensi della disciplina regionale.
[1] T.A.R. Campania, Napoli, sez. VII, 4 giugno 2020, n. 2200.
[2] T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 9 marzo 2020, n. 1035. In effetti, l’art. 24 del d.P.R. n. 380/2001 se estende la verifica di agibilità a qualsiasi tipologia di edificio, quale che ne sia la destinazione d’uso, conferma l’estensione del successivo art. 26 che espressamente prevede che il rilascio della relativa certificazione non impedisce l’esercizio del potere di dichiarazione di inagibilità all’eventuale passaggio non autorizzato da una destinazione d’uso non abitativa alla destinazione abitativa, mutamento che, oltre alle possibili sanzioni sul piano urbanistico – edilizio, resta comunque sottoposto al controllo, sempre immanente, dell’idoneità igienico – sanitaria dell’edificio ai fini dell’uso abitativo non corrispondente a quello originario, T.A.R. Toscana, sez. II, 12 luglio 2010, n. 2503.
[3] Cons. Stato, sez. VI, 29 novembre 2019, n. 8180.
[4] T.A.R. Toscana, sez. II, 3 giugno 2010, n. 1701.
[5] Il Tribunale si sofferma sulla figura dell’ufficiale sanitario introdotta nel nostro ordinamento dalla legge 22 dicembre 1888, n. 5849 (legge sulla tutela dell’igiene e della sanità pubblica, nota come legge Crispi-Pagliani), quale organo periferico del Ministero dell’interno alle dipendenze del Prefetto. Con il regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265 (Testo unico delle leggi sanitarie) detta figura restava alle dipendenze del Ministero dell’interno, per il tramite del Prefetto, con compiti di vigilanza sull’igiene e sulla sanità pubblica e con funzioni d’ispezione, d’iniziativa e consultive. Con l’istituzione del Ministero della sanità (legge 13 marzo 1958, n. 296) l’Ufficio sanitario diviene organo periferico di tale Ministero (cfr. art. 4), coordinato dal Prefetto, con competenze ampliate dal successivo d.P.R. 11 febbraio 1961 n. 264 («Disciplina dei servizi e degli organi che esercitano la loro attività nel campo dell’igiene e della sanità pubblica»), acquisendo altre competenze del Prefetto e divenendo il punto di convergenza delle attività sanitarie, di vigilanza igienica e profilassi, di medicina preventiva e assistenziale.
[6] Mancavano, tra l’altro, i presupposti per l’adozione di un’ordinanza contingibile e urgente, ossia la sussistenza di un pericolo irreparabile ed imminente per la pubblica incolumità, non altrimenti fronteggiabile con i mezzi ordinari apprestati dall’ordinamento, e la provvisorietà e la temporaneità dei suoi effetti, Cons. Stato, sez. V, 12 giugno 2017, n. 2799.